Gli eroi in bianconero: Gianluca PESSOTTO
Pessottino per chi gli vuole bene. E sono in tanti che lo stimano e che gli vogliono bene. Vent’anni di calcio, comincia a quattordici nelle giovanili del Milan; vive in collegio e la solitudine, il freddo, la nostalgia di tanti bambini che crescono così, con il loro sogno sotto il cuscino sono i suoi compagni di camera. È stato un trauma lasciare il suo Friuli, poco più che ragazzo. Lontano da casa sente la mancanza della famiglia, degli affetti più cari, degli amici di infanzia. Stringe i denti, fa grossi sacrifici e studia da perito aziendale e corrispondente in lingue estere, sognando di diventare un calciatore famoso, come i neo Campioni d’Europa del Milan che, tra gli altri, allineano Carletto Ancelotti.
A quel tempo, Pessotto, aveva già imparato cosa significa vivere in un collegio aperto a tutti, lavare la propria biancheria intima e mangiare cibi scotti. Gianluca ricorda che, quella del Milan, fu una scuola di vita importante e, se uno resiste a certe prove, nulla più lo spaventa. Pane duro, dunque, prima di pasteggiare a caviale e champagne, si fa per dire, grazie al calcio miliardario.
Dalla gestione Farina, il Milan passa a quella di Berlusconi e la situazione, anche a livello giovanile, migliora notevolmente sotto il profilo economico: «Il mio rimpianto più grande è quello di non aver continuato gli studi, come desideravo. Mi ero sposato con Reana, conosciuta a Varese quando ero in prestito nella squadra lombarda, e stavo superando i test per l’ammissione alla facoltà di Psicologia, quando è nata Federica. Mia figlia ha assorbito completamente le mie attenzioni, dopo l’incredibile full immersion calcistica che ho fatto nella Juventus. Quando è venuta al mondo, ero in ritiro per un mese e riuscivo a vederla con il contagocce. Allora ho capito che, nelle vesti di papà, dovevo dedicarmi a lei e a Reana. Per questo ho messo da parte i libri, il mio cruccio. Ed anche gli hobby. Ma la famiglia è molto più importante. Quando ero giovane mi è mancata parecchio».
Il sogno di una carriera normale che poi diventa grande: «Dai ragazzi del Milan al Varese, prima in C2 e poi in C1. Dal Varese alla Massese, ancora in C1 e, subito dopo, il passaggio di categoria, nel Bologna e nel Verona. Dalla B alla A con il Torino dove debuttai in prima squadra al Delle Alpi contro l’Inter, nel settembre 1994. Vinsero i neroazzurri 2-0, ma fu un ottimo campionato. Vincemmo entrambi i derby e avemmo la fortuna di essere l’unica squadra a battere due volte la Juventus. È stata una stagione importante, anzi inventandomi terzino sinistro, Sonetti fece la mia fortuna. Io sono destro naturale, anche se scrivo con la sinistra. E c’è carenza di mancini che giocano in difesa. Lo stesso Maldini è un destro che ha trovato la propria strada a sinistra. Naturalmente, Paolo è il più grande. Un problema, quello del fluidificante di sinistra, che aveva pure quel Torino. E Sonetti trovò la soluzione, cambiandomi la posizione che era originariamente quella di mediano destro, anche se, saltuariamente, mi ero cimentato sul versante opposto. Un segno del destino».
Con la Juventus gioca 366 volte, vince sei scudetti e tutte le coppe, compresa la Champions League, nel 1996, contro l’Ajax ai rigori. Uno lo segna proprio lui come quell’altra volta, agli Europei 2000 in semifinale contro l’Olanda. È la partita del “cucchiaio” di Totti, ma un altro pallone lo mette in porta proprio Pessottino, ancora una volta contro Van der Sar, suo futuro compagno bianconero.
«La Juventus è il massimo. Tante le gioie. Poche, anche se bruciano ancora, le delusioni. Nel primo campionato ci piazzammo secondi, ma poi vincemmo la Champions League. Mi viene ancora la pelle d’oca se penso a quando ho tirato uno dei calci di rigore che ci diedero il trionfo. Era una coppa cui la società teneva moltissimo dopo quella dello stadio Heysel, insanguinata e piena di polemiche. L’anno successivo, purtroppo, mi infortunai al tendine d’Achille e dovetti dare forfait a Tokyo, un appuntamento con gli argentini del River Plate che ci tenevo tantissimo a non perdere. Partecipai comunque alla gioia dei miei compagni. Purtroppo, dietro l’angolo, per me, c’era stata la iella. Lo scudetto mi ripagò, con gli interessi, di quell’amarezza e dell’altra, a Monaco di Baviera, nella finalissima persa con il Borussia Dortmund. Quella sera mi toccò soffrire in panchina. Ma non la dimenticherò facilmente».
Si rompe il ginocchio nell’amichevole prima dei Mondiali 2002: li avrebbe giocati da titolare, invece, sta fermo sette mesi. La sua carriera finisce con l’ennesimo scudetto, il ventinovesimo bianconero, quello più amaro.
Diventa Team Manager, prima di quel gesto difficile da spiegare, gesto che tutti vorrebbero dimenticare il più presto possibile: «Di quella mattina non ho un reale ricordo, ma tra le mani avevo un rosario. Prima provavo un forte senso di vuoto, un male nell’anima e una grande solitudine, nonostante le tante persone che ti stanno attorno. Quanto esci da una sofferenza ne trai sempre qualcosa di positivo, di costruttivo. Rivedi tutto, rivaluti tutto e ne esci più forte, con qualche cicatrice, ma sei più forte. L’affetto della gente mi ha aiutato moltissimo ed è una cosa bellissima, se dai amore ricevi amore. Se dovessi fermarmi a ringraziare tutti coloro che mi sono stati vicini nei mesi difficili, non finirei più. Così come la squadra che, addirittura, su decisione di Del Piero e dei vecchi dello spogliatoio, ha ritirato la maglia numero sette».
Lo chiamano il Professore; ha l’aria dell’insegnante, quando inforca gli occhialini e si tuffa nella lettura di un libro: «Schopenauer e Dostoevskij sono i miei autori preferiti, ma è “Il piccolo principe” il libro che mi ha maggiormente affascinato; attraverso una favola per bambini, lo scrittore ha voluto trasmettere l’insegnamento di quei valori che vanno contro il materialismo imperante della nostra società. Penso di essere così anch’io; sin da piccolo ho sempre preferito l’essere dall’apparire».
L’amore esasperato per la moglie «Reana è come la Juventus, la migliore che potessi mai sposare» e per le splendide figlie Federica e Benedetta. E poi il sorriso e la sua lealtà; come quella volta a Perugia. La Juventus sta perdendo lo scudetto; ultimi minuti, l’arbitro dà una rimessa ai bianconeri, ma lui dice che è un errore e restituisce la palla all’avversario.
«Vivere, prima di tutto, E camminare, muovere i primi passi incerti, sentire di nuovo la terra sotto di te, procedere spediti verso l’indipendenza; una sensazione stupefacente, la cosa più bella in assoluto. Non parliamo, poi, della gioia che ho provato quando, per la prima volta, ho potuto guidare di nuovo la macchina. Non mi sarei più fermato, ho girato e rigirato per tutta Torino, libero e con la mente sgombra, senza più quegli incubi che mi avevano accompagnato nel mio girovagare, sconvolto, per le stesse strade, in quel lontano sabato di fine giugno. Mi sentivo come un bambino sulla giostra, così felice che non avrei mai voluto interrompere il divertimento ritrovato».
Questo è Gianluca Pessotto.