Sotto la lente - In nome del sentimento popolare
"In nome del Popolo Italiano": così, come tutte le sentenze, inizia anche la sentenza del processo d'Appello su Calciopoli.
Ma c'è un errore di fondo: leggendola (e sinora è stato possibile farne solo una scorsa veloce, son 203 pagine, fitte e rifitte di tutte le fole che già popolavano le informative di Auricchio, perché al Tribunale di Napoli il tempo si è fermato al 2006) si viene nuovamente investiti dalle folate del sentimento popolare, che ne fanno una sentenza 'politica' e non in punta di diritto..
Sì, perché altrimenti certe cose non si riuscirebbe a spiegarsele.
A partire dal ritratto di Moggi, il vero cattivo a tutto tondo che popolava le prime pagine di gazzette e gazzettini nel lontano, ma onnipresente nelle sentenze, 2006: e "Moggi a capo di tutto", era il titolo che predominava sui quotidiani di martedì, a sancire il ritorno di Moggiopoli, col mostro in prima pagina. Perché, anche se le motivazioni riguardano tutti gli indagati, le anticipazioni 'sfuggite' (sfuggire è uno dei verbi-cardine di Calciopoli: sono sfuggite tante telefonate, è sfuggita l'Inter, ed è sfuggita, al tribunale di Napoli, la verità; in realtà le hanno spalancato la porta, le hanno dato un calcio nel sedere e l'hanno sbattuta fuori) avevano come protagonista il solo Moggi; al quale, al di là di alcune fandonie trite e ritrite, si getta addosso la colpa di essere "spregiudicato" (ovviamente nel senso deteriore del termine) e di avere "personalità decisa, ma al contempo concreta" (come peraltro si conviene ad un manager che vuole ottenere risultati, in una società che si reggeva sulle sue gambe e non sul petrolio e sugli artifici contabili).
I suoi delitti? Boh...
Sì, perché le motivazioni si prolungano per oltre duecento pagine: ma chi pensasse di ritrovarvi le prove di qualsivoglia delitto si sbaglia. Semmai vi si ritrova solo un colpevole in più, nella persona del collegio che ha steso la prima sentenza, accusato di essere praticamente stato troppo morbido. Sappiamo tutti peraltro come la sentenza di primo grado sia stata il frutto avvelenato di un collegio spaccato: da una parte la dott. Casoria, per nulla convinta dalle pseudoargomentazioni addotte dall'accusa e conscia che si era badato solo a correr dietro ai misfatti di Moggi, e dall'altra le due colleghe, coalizzate, proprio loro che erano state le due stampelle su cui i pm avevano poggiato le reiterate istanze di ricusazione della Presidente Casoria. Proprio per questo la sentenza non stava in piedi: e dunque il collegio d'appello l'ha puntellata eliminando i chiaroscuri dovuti all'invadente presenza della Casoria. E sulla verità è sceso il buio. E forse contano su questo buio perché la Cassazione non riesca a trovare dov'è il bandolo che ha imbrogliato la matassa.
Non è possibile in un solo pezzo sviscerare tutte le oscenità giuridiche contenute in queste motivazioni: lo farò in alcuni dei prossimi articoli, scempiaggine per scempiaggine.
Considerazione principale: mesi, anzi anni, di dibattimento non sono serviti a nulla. Gli elementi presi in considerazione sono gli stessi contenuti nelle informative di Auricchio, con una cupola radicata già dal 1999/2000, quando solo l'arbitro che 'se sbaglia lui nessuno dice un cazzo' (sbagliò e) riuscì a far giustizia di un 'campionato condizionato sino alla penultima giornata' (quella di Juve-Parma diretta da De Santis).
Compaiono tutte le nefandezze già viste: dal caso Paparesta (magari non rinchiuso nello stanzino ma terrorizzato da Moggi e Giraudo), al caso Jankulovski, con tutte, ma proprio tutte, le storture che si porta dietro, dai sorteggi truccati (a dispetto di tutto e di tutti, quando l'unica cosa che non ci spiegano è che fine abbia fatto il video taroccato del sorteggio) agli arbitri puniti se danneggiavano la Juve (in realtà è accaduto esattamente l'opposto). Per non parlare delle schede svizzere e della tragicomica difesa degli specchietti di Di Laroni, realizzati a suon di 'olio di gomito'.
Tutto all'ombra della cupola.
La prova dell'esistenza della cupola? Ma che diamine! L'ha detto Fabio Monti cui l'ha detto Giacinto Facchetti. E bisogna credergli perché anche Gianfelice Facchetti ha riferito che il padre ha detto così anche a lui.
Capito che prova? Una pistola fumante in piena regola.
E non importa se Facchetti era quello che negli spogliatoi andava prima della gara (a chiedere a Bertini di smuovere la casella delle vittorie nel 4-4-4), quando ancora poteva influenzare, eccome, l'animo della terna, e non dopo, come Moggi, che magari, a buon diritto come a Reggio Calabria, si arrabbiava, ma senza esito perché ormai il risultato era acquisito.
Qualcosa sarà sfuggito....
L'ha ammesso persino la Casoria.
Che una cosa giusta pare però averla detta, se i giudici d'appello, seppur obtorto collo, sono costretti a riconoscere che "non è emersa la concreta alterazione dei dati del campionato di serie A per gli anni 2004/2005".
Ma allora quello spregiudicato di Moggi, dalla personalità decisa ma al contempo concreta, che cupolava a fare, se non alterava i campionati (visto che di valigette ricolme di euro nessuno ha mai trovato la più pallida traccia)?
Corollario: la cosa più stonata, tutt'attorno alla sentenza, è stato il Moratti che si gonfia il petto, proclamando che giustizia è fatta e che adesso è acclarato cosa è accaduto: sì, è acclarato che si è trattato di una Farsa, dietro la quale si sono mosse le due Milano e la quinta colonna torinese, con la collaborazione del ribaltante Baldini e di chi tradiva il dovere di informare votandosi alla dichiarata mission di orientare l'opinione pubblica e anche gli inquirenti.
Rimangono i buchi neri: per esempio il viaggio del Pc di Tavaroli da Milano a Roma, il fasciocolo modello 45 secretato dalla Boccassini, la richiesta a Ghioni di alcuni files di log da parte della Boccassini stessa, più qualche altro increscioso fatto, come il suicidio di Adamo Bove.