Gli eroi in bianconero: Roberto BETTEGA

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
27.12.2024 10:20 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Roberto BETTEGA
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Un regalo di Natale, per Raimondo e Orsola. Il piccolo Roberto, secondogenito di casa Bettega, si presenta al mondo il 27 dicembre 1950. Nasce in una casa della periferia torinese, non troppo lontano dal cuore di una città austera e orgogliosa, complessa e taciturna. Appena fuori dal centro, dove nasce Robertino, si respira un’altra vita. C’è l’anima proletaria, c’è il mestiere che sporca le mani e purifica i sentimenti. Papà Raimondo fa il carrozziere, mamma Orsola la maestra. Né stenti né stravizi, la vita scorre tranquilla. Fino all’illuminazione. Che arriva secca, precisa, nel cuore e nella mente di un ragazzino di appena 7 anni. E nel cuore del tifo, in mezzo alla curva Filadelfia del Comunale di Torino, in un pomeriggio da derby. Di qua la Juve, di là il Toro. La scelta non ammette compromessi, ed essendo la scelta di un bambino è dannatamente seria.
Robertino dipinge di bianconero il sangue che gli scorre nelle vene, si innamora di quell’oggetto tondo che rotola sul campo e ne fa un pensiero fisso. Da lì in avanti, la vita è scuola e pallone. Papà Raimondo se ne rende conto, e non ostacola il suo ragazzo. Figurarsi: per lui la Juventus è fede cristallina, gli piace vedere quel figliolo consumato dalla stessa passione. Di più, Roberto gioca e ci dà dentro, e intanto sogna come tutti i ragazzi della sua età. Siccome il sogno è una maglia bianconera, papà non si fa pregare: lo infila in macchina e lo porta a casa Juve, alla scuola di avviamento per giovani calciatori. Se son rose, pensa, fioriranno.
Il primo maestro, storico per tutti i marmocchi che si presentano in quegli anni ai cancelli bianconeri, si chiama Mario Pedrale. Robertino la prende di petto, si appassiona e s’impegna, e nel frattempo Madre Natura fa il resto: a 13 anni il diminutivo diventa fuori luogo, per un ragazzo che è cresciuto fino a toccare quota 170 centimetri, e che nelle foto di gruppo si riconosce sempre al volo.
«È vero, pensavo soltanto a giocare al calcio. Per ore e ore avrei soltanto inseguito quella sfera di cuoio. Poi, da tifoso bianconero, ero ben felice di essere finito tra i Pulcini della Juve. Nel 1962 faccio la mia prima apparizione allo Stadio Comunale: prima di Juventus-Inter si affrontano due squadre del NAGG bianconero. C’era molta gente, ma non ero affatto emozionato, A proposito: agli inizi della mia carriera giocavo da mediano. La “svolta storica”, da centrocampista ad attaccante, avviene nel 1964-65, per merito dell’allenatore degli Allievi. Grosso. Il mio idolo giovanile? John Charles. Mi piaceva il suo modo di giocare, la sua bravura nel colpire di testa in perfetta elevazione... Degli anni giovanili, ricordo le partite con la Nazionale Juniores giocate insieme a gente come Bordon e Spinosi».
Nel gruppo, appunto, si fa notare. Spazia tra centrocampo e attacco, e non si perde per strada come tanti coetanei. Quando Pedrale lo consegna a Ercole Rabitti, che lo aggrega alla prima squadra per la stagione 1968-69, spende le prime frasi profetiche: «Io dico che è nato attaccante. Se il fisico lo sorregge, può diventare una punta alla Charles».
Rabitti, a parole, gli va a ruota. Ma, in effetti, cerca la prova del nove, e non gli sembra che buttarlo in campo subito sia la cosa migliore. Meglio parcheggiarlo in prestito per un anno, mandarlo, come si dice, a farsi le ossa.
La stazione prescelta è quella di Varese, Serie B. Alla guida c’è un europeo del Nord che ha lasciato il segno del suo passaggio nel calcio italiano: una vita da mediano, ma di lusso, con i cromosomi del fuoriclasse. Si chiama Nils Liedholm, il timoniere del Varese. In rossonero la sua nuova carriera di tecnico non ha avuto un ritmo esaltante, la B è in fondo un trampolino di lancio anche per lui.
Forse è per questo, anche per questo, che crede ai giovani. Forse è per questo che punta su Roberto Bettega, per il suo Varese che non può mettere in campo troppi talenti. Insomma, lo svedese getta nella mischia il neppure ventenne Bettega, e il ragazzo lo ripaga delle attenzioni. Prima stagione vera da professionista, 30 presenze e 13 reti in serie B.
È lui il miglior realizzatore del torneo, insieme al compagno di squadra Ariedo Braida e ad Aquilino Bonfanti del Catania. In quel Varese, che vola sicuro verso la Serie A, Bettega trova compagni di viaggio indimenticabili: “Gedeone” Carmignani, lo stesso Braida, Ricky Sogliano, Dario Dolci, Angelo Rimbano. Tutti lasceranno un segno del loro passaggio sul calcio italiano, e lui più di ogni altro.
Liedholm lo descrive così: «Possiede le qualità essenziali per una punta: piede e testa, cioè buon trattamento di palla ed elevazione. È un altruista e un opportunista secondo le circostanze e ciò, naturalmente, corrisponde al meglio per un uomo d’area di rigore».
Intanto, lascia parecchi osservatori a bocca aperta. Compresi quelli della Juventus, Rabitti in testa, che si affrettano a richiamarlo alla base. Il ragazzo ha talento: a nemmeno vent’anni mette in mostra acume tattico e impressionante potenza.
I suoi gol hanno già il marchio di fabbrica: Roberto segna di testa, tuffandosi col coraggio dell’incoscienza, e il suo piede, soprattutto quello destro, sa già dare alla sfera traiettorie uniche. «È un opportunista, sa farsi trovare pronto all’appuntamento col gol. Ma nello stesso tempo non è un freddo, un calcolatore, e va in cerca della palla e del gioco alla fonte». All’epoca, questo è il giudizio tecnico per il neo-cannoniere cadetto che approda alla massima serie dalla porta principale. Lusinghiero è dir poco, considerando che ha appena vent’anni.
«Un successo non sperato ma che, dopo poche settimane dal mio debutto, iniziava a prendere consistenza, visto che continuavo a segnare e a convincere. Il goal più bello? Penso di averne fatti diversi. Ricordo la doppietta col Mantova, la rete con l’Arezzo, quella con l’Atalanta. Una curiosità: all’ultima di campionato batto un rigore contro il Piacenza realizzandolo. Dovranno passare dieci anni prima che, in campionato, prenda nuovamente la rincorsa dal dischetto. Io parto da un principio ben preciso: si può vincere la classifica cannonieri soltanto usufruendo dei calci di rigore».
Il giovane figlio della scuola bianconera torna a casa ma casa non è più quella di una volta. È cambiata l’aria che si respira, sono cambiati idee e uomini.
Giampiero Boniperti è di nuovo in famiglia, con addosso la veste di amministratore delegato. Il direttore generale è Italo Allodi, la guida della squadra è affidata ad Armando Picchi. È l’inizio di una rivoluzione tecnica che non si arresta neanche quando un destino maledetto si accanisce contro l’ex campione livornese. Picchi se ne va da questo mondo, trascinato via ad appena 36 anni da un male incurabile, e Boniperti sceglie (in disaccordo con Allodi) Cestmír Vycpálek per continuare il viaggio.
È la stagione 1970-71, c’è già, in bozza, una Juventus da grande ciclo. Ci sono talenti prossimi a farsi gruppo vincente: i giovani come Capello, Causio, Spinosi, i “grandi vecchi” come Salvadore e Haller, dispensatori d’esperienza. E c’è, da subito, il giovane Bettega: debutto con gol-vittoria alla prima di campionato, a Catania.
«Ero completamente concentrato sulla partita e ogni altro pensiero, compresa l’emozione, scomparve. Appena toccato il primo pallone, sparì anche la paura di sbagliare; andò bene il primo stop e il successivo passaggio, per cui, fortunatamente, tutto proseguì nei migliori dei modi, tanto che, verso la fine della partita, riuscii a segnare il goal della vittoria, con un bel colpo di testa. In porta c’era l’amico Tancredi, terzini Spinosi e Furino, stopper Morini, libero Salvadore e Cuccureddu mediano di appoggio. In attacco Haller ala tornante, Marchetti e Capello mezze ali, Anastasi al centro dell’attacco ed io, con la maglia numero 11, schierato all’ala sinistra. Arriviamo al 4° posto in classifica dietro l’Inter di Boninsegna, il Milan e il Napoli. 13 reti al primo anno non sono male; mi classifico al 4° posto dietro Boninsegna, Prati e Savoldi, cioè tutti cannonieri affermati. Purtroppo, da un punto di vista umano, subiamo un grave trauma: muore l’allenatore Armando Picchi, uomo buono, intelligente e sensibile. È un brutto colpo per tutti noi: eravamo legati da profonda amicizia e stima a quell’uomo generoso».
È solo l’inizio: il bomber del nuovo corso parte con l’acceleratore a tavoletta anche nella stagione successiva. Il ragazzo-prodigio studia da idolo delle folle, infila una serie d’oro, suggella il momento magico il 31 ottobre del 1971 con un gol da antologia nella doppietta rifilata al Milan. Col grande Nereo Rocco che si toglie il cappello in segno d’ammirazione.
«Certi goal non li potrò mai dimenticare. La prima rete la infilo di testa, in “schiacciata” su perfetto cross di Causio. La seconda, forse il mio “centro” più bello, lo realizzo di tacco beffando il portiere Cudicini».
Dice John Charles: «Devo ringraziare Bettega; se in Italia si parla ancora di me è grazie a lui e mi fa piacere che qualcuno si ricordi del sottoscritto. Sinceramente, non sta a me dire se Roberto sia più bravo di com’ero io o se lo diventerà in futuro. Devo ammettere, però, che fra lui e me ci sono delle analogie: anch’egli è ottimo nel colpo di testa, anch’egli è abile nello smarcarsi, anch’egli, soprattutto, segna, e segna tanto. Dal vivo, l’ho visto all’opera cinque volte, fra le quali in occasioni di Milan-Juventus 1-4; in quella circostanza, il ragazzo è stato super. Mi ha entusiasmato. Non ha mostrato punti deboli, non saprei nemmeno cosa consigliargli di curare particolarmente per migliorare, perché è eccellente in tutto. È giovanissimo eppure è un giocatore già fatto. Pur essendo un uomo-gol di provata affidabilità, è bravissimo nel rendersi utile ai compagni, per i quali risulta alquanto prezioso. La sua verde età mi fa pensare che riuscirà a progredire ancora; fra un paio d’anni sarà un fenomeno. Ribadisco: son contentissimo che Bettega venga accostato a me, ma non è mio compito azzardare confronti fra noi. Il mio augurio più grande a Roberto è quello di continuare a confermarsi ogni domenica, senza soluzione di continuità: se ci riuscirà, allora la Juve diverrà la più forte squadra d’Europa. Nel processo di crescita della Signora, l’apporto del suo attaccante sarà fondamentale. In ogni caso, auguro ai bianconeri di vincere lo scudetto, io faccio sempre il tifo per loro. Il mio grande amico Boniperti è fortunato: quando giocava, poteva contare su di me; ora, può contare su Bettega!».
14 partite, 10 gol, papà Raimondo è pieno d’orgoglio e i cuori bianconeri impazziscono di gioia: sembra la consacrazione, ma un pomeriggio di pioggia e gelo, dopo l’ennesima rete sparata in faccia alla Fiorentina al Comunale, la vita cambia all’improvviso.
Gli piomba addosso una tosse fastidiosa, insistente. Entra in clinica il 1° gennaio del 1972, brutta maniera di iniziare l’anno. Lo visitano e la diagnosi è impietosa: affezione infiammatoria all’apparato respiratorio. È pleurite, per capirci: la stagione è finita.
Roberto fa in tempo a unirsi ai compagni a primavera, nel pomeriggio felice in cui si brinda allo scudetto. Un tricolore a cui ha contribuito, con quei 10 gol pesanti come macigni.
«Un brutto colpo, davvero... Ma ho saputo reagire alla malasorte con coraggio, senza perdermi d’animo, A vent’anni è giusto non demoralizzarsi. Recupero dopo otto mesi lunghi difficili».
La malattia lascia, la determinazione (se possibile) raddoppia. Il 24 settembre del 1972, a Bologna, Roberto Bettega torna in campo accolto dagli applausi. Ha vinto una battaglia difficile, ne è uscito più forte dentro.
A giugno Boniperti annuncia: «Sarà lui il migliore acquisto della stagione».
Lo dimostra in campo, trascinando la Juve al secondo scudetto consecutivo. Diventando una bandiera: lui c’è sempre, là davanti, anche quando i compagni di reparto cambiano.
Dopo Anastasi e Haller, dopo l’Altafini part-time di fine carriera, ecco Roberto “Bonimba” Boninsegna. La Juve si muove, si evolve, intorno al figlio del carrozziere diventato idolo della curva. E lui, tatticamente versatile, sa adattarsi a ogni situazione e a qualsiasi compagno di viaggio.
«In effetti ritorno a giocare secondo una mia predisposizione naturale, facendo cioè la mezzapunta, tornando indietro a centrocampo oppure ritrovandomi in difesa. Più che fare i goal, mi piace giocare. Più che un successo personale, preferisco la vittoria della squadra. È il mio carattere. Sono comunque anni importanti per la Juventus, che vince lo scudetto nel 1972-73 e nel 1974-75; nel 1973-74, invece, terminiamo secondi alle spalle della Lazio-rivelazione di Maestrelli e Chinaglia. Ricordo bene la stagione del 16° scudetto. Siglo soltanto 6 goal, ma sono quasi tutti importanti: contro Milan, Napoli, Vicenza... Gli anni ‘70 parlano soltanto bianconero».
Stagione di alti e bassi, diciamo pure a corrente alternata. Eppure importante, perché arriva finalmente il momento di giocare la carta Bettega anche in azzurro. A decidere in questo senso è il vecchio maestro Fulvio Bernardini, che apre un nuovo capitolo della carriera del campione. Un capitolo fatto di grandi gioie e segnato, oltre che dall’incontro decisivo con Enzo Bearzot, da un incredibile scherzo del destino. Il secondo, dopo la malattia del 1972. Quello che gli negherà, dieci anni più tardi, la gioia di partecipare a un’avventura mondiale da vincitore.
Con la maglia bianconera, intanto, Bettega continua a togliersi soddisfazioni.
Non è immediato il feeling con Vycpálek, non lo è quello con Carletto Parola. Ci si mettono anche certe situazioni difficili e fastidiose, come la volata-scudetto perduta contro il Torino nella stagione 1975-76, una sconfitta che il bottino personale di quindici gol non ripaga.
Le reti salgono a quota 17 nel 1976-77, e questa volta a vincere il testa a testa sono Roberto e compagni. È il primo capolavoro di un tecnico giovane e vincente voluto da Boniperti: Giovanni Trapattoni presenta all’Italia la sua Juve da battaglia, fisicamente corazzata dagli innesti di Benetti e di un ancora vivacissimo Boninsegna, resa sicura tra i pali da Zoff, in difesa dalla coppia Cuccureddu-Gentile, da Morini e da un sempre più autoritario Scirea, illuminata da Causio che regala a Bettega e a Boninsegna mille occasioni da gol.
È finalmente una Juve europea, e lo dimostra vincendo il suo primo trofeo internazionale, la Coppa Uefa, dopo aver buttato fuori Manchester City, Manchester United, Shakhtar Donetsk, Magdeburgo, AEK e, in finale, l’Athletic Bilbao. Nell’inferno della partita di ritorno, in Spagna, è proprio Bobby Gol ad aprire la strada verso la gloria, con una rete destinata a restare nella storia bianconera.
Il 5° scudetto arriva l’anno successivo (1977-78). «In questa stagione inizio subito bene, realizzando una doppietta, nella prima di campionato, al Foggia; ricordo ancora la rete che infilo di sinistro al Perugia, il goal d’anticipo al Verona, la doppietta al Vicenza di Paolino Rossi all’ultima di campionato... Sono 18 scudetti: una felicità immensa per me e i miei compagni di squadra».
Poi, stagione 1979-80, la vittoria nella classifica dei cannonieri. «Il gol che preferisco è quello contro l’Inter al Comunale, perché vinciamo per 2-0 contro i futuri Campioni d’Italia mostrando un gioco vivace e incisivo. Segno, sinceramente, un gran goal. 32’: Gentile crossa dalla sinistra, salto di testa anticipando alla perfezione Bordon e Mozzini, infilando sulla sinistra. Poi non dimenticherò mai l’ultimo sigillo, anche se segnato su rigore: è il goal che mi permette di vincere la classifica cannonieri, davanti a giocatori bravi come Altobelli, Rossi, Graziani e Selvaggi. Sono contento e ringrazio tutti i miei compagni, che mi sono stati vicini e, che mi hanno aiutato a compiere questa impresa».
Il sesto, quello più difficile per il campione, nel 1980-81. Una stagione da 5 gol in 25 partite, praticamente in salita in una squadra priva di vere punte, con Fanna, Causio, Marocchino guidati dalla sapienza di Liam Brady. Stagione di stonature (la clamorosa litigata con l’arbitro Gigi Agnolin) e di sospetti (i difensori del Perugia accusano Bettega di aver fatto pressioni in campo perché lo lasciassero segnare: un mese di squalifica).
Qualcuno parla già di viale del tramonto, non è il massimo per uno che appena un anno prima vinceva la classifica marcatori del campionato italiano. Lui tace, secondo l’antica scuola appresa da mamma Orsola, paziente e gozzaniana maestrina torinese.
Tace e accetta, come chi sa capire la vita, come chi sa che oggi sei idolo e domani puoi finire nella polvere, come chi non si sorprende e non si spaventa di questa vita effimera da uomini di calcio.
Tace e si prepara, con Bearzot, all’assalto mondiale di Spagna, che gli verrà negato, si diceva, dall’ennesimo brutto scherzo del destino. Il secondo in carriera.
Rassegnato? Mai. Roberto Bettega, torinese duro e puro, testardo e taciturno, si riprende la vita: è ancora campione d’Italia (il 7° sigillo) nella stagione all’inferno 1981-82, e l’anno dopo agguanta la Coppa Italia e va all’attacco della Grande Illusione. È in dirittura d’arrivo, vorrebbe chiudere in bellezza.
Dieci giorni dopo il commiato dal campionato italiano (15 maggio 1983, Juventus-Genoa 4-2), fa l’ultima apparizione ufficiale in maglia bianconera ad Atene: si gioca la finale di Coppa dei Campioni. Di fronte alla Juve del Trap c’è l’Amburgo, e i bianconeri sulla carta sono i favoriti d’obbligo. Bobby Gol è a un passo dal sogno, come tutto il popolo juventino. A svegliare tutti quanti sarà il maledetto, imprendibile tiro di Felix Magath.
Il campione ha i capelli grigi, per l’ultima recita si è assicurato un ruolo nella Juve forse più bella degli ultimi vent’anni. Accanto ha gli uomini del futuro: Platini, Rossi, Boniek. Non bastano, per volare sull’Europa. Appuntamento rimandato, per la Vecchia Signora del calcio italiano.
«Non c’è giornalista in Europa che, quella notte, avrebbe scommesso una Dracma sulla vittoria dell’Amburgo. Eppure, non so che cosa ci succede; non è stanchezza, né forma scadente, è solo questione di testa. Il Mondiale del 1982 non è cosa per me; a causa dell’infortunio non vengo convocato. Brontolo, però mi metto l’anima in pace. Ma ad Atene la Juventus la fa grossa. Se avessi la facoltà di rivivere un avvenimento nella mia carriera, tornerei a quel maggio maledetto e rigiocherei la finale con i tedeschi. Loro non demeritano, solo che noi siamo irriconoscibili. Lascio, perciò, il calcio senza realizzare un sogno meraviglioso».
Roberto Bettega consegna la sua maglia alla storia bianconera, e a quella storia si consegna. Questione di numeri, di grandi numeri: in 13 anni, quella maglia l’ha indossata in 481 occasioni ufficiali, trovando la strada della rete in 178 occasioni. Ha vinto 7 scudetti, due volte la Coppa Italia, una Coppa Uefa, ha sfiorato due volte la Coppa dei Campioni (oltre alla finale dell1983 con l’Amburgo, quella lasciata nelle mani dell’Ajax il 30 maggio del 1973).
A chiamare Roberto Bettega in Nazionale è nientemeno che Fulvio Bernardini, profeta del calcio dei “piedi buoni”. Un’incoronazione, insomma. Magari un po’ tardiva, perché la decisione il Dottore la prende il 5 giugno del 1975, facendo esordire il campione bianconero contro la Finlandia, in una squadra azzurro-juventina.
Bettega ha 25 anni, e certamente a farlo arrivare in ritardo all’appuntamento con la Nazionale è stata la lunga malattia del 1972, quella che sembrava dovergli spezzare ambizioni e speranze. Il battesimo lo firma Bernardini, la consacrazione a opera di Enzo Bearzot, che del Bettega azzurro sarà il vero mentore.
La nuova Italia, coraggiosa e allegramente sfacciata, sicura dei propri mezzi, nasce intorno a Bobby Gol, al suo ruolo di attaccante mai avulso dal gioco, naturalmente alle sue reti. Ci conta, il friulano Bearzot, e il giocatore risponde alle sollecitazioni.
Inventando, tra l’altro, una perla da consegnare agli annali: il gol che il 17 novembre del 1976 regala all’Italia il successo sull’Inghilterra all’Olimpico, oltre a una certezza in più sulla strada verso il Mondiale d’Argentina. La fotografia è nella memoria: volo d’angelo, colpo di testa sublime, Clemence in ginocchio e con lui tutta l’Inghilterra.
In Argentina, Bettega disputa l’unico Mondiale della sua carriera: brillante dal punto di vista del gioco, un po’ meno da quello del risultato. La squadra gira intorno a lui, sembra costruita apposta per lui. È bella e sfortunata.
Il campione potrebbe rifarsi nell’anno del Grande Sogno, se soltanto la sorte non gli si mettesse contro. Per la Nazionale di Bearzot, che a Spagna ‘82 vuol giocare da protagonista, Bettega e sempre un punto fermo. Lui si mostra vivo, acceso, nella prima parte della stagione.
Fino a quella serata maledetta di Coppa dei Campioni. È il 4 novembre del 1981, a Torino si gioca Juventus-Anderlecht: Bettega ha un terrificante impatto con Munaron, il portiere belga, e resta a terra. La diagnosi è impietosa, proprio come accadde nel 1972: distacco del legamento collaterale-mediale del ginocchio sinistro, stagione finita, viaggio in Spagna cancellato (anche se Bearzot, incredulo orfano del suo campione, prova a credere fino all’ultimo istante in un miracolo).
«L’infezione polmonare, se ci penso adesso, mi dico che ero un incosciente ma, probabilmente, era la forza reattiva dei vent’anni. Ho giudicato la malattia un incidente di percorso, niente di più. È stato molto più difficile sopportare le conseguenze dell’infortunio al ginocchio e non solo per il dolore che mi ha torturato a lungo. La malattia si affaccia, invece, con strani sintomi, un po’ di tosse la settimana prima del match con la Fiorentina. Sì, ho un leggero mancamento prima della partita con l’Inter, a San Siro, quindici giorni prima, un malessere attribuito alla tensione nervosa, all’aver fatto un massaggio vicino a un calorifero: eravamo in pieno inverno. Comunque, la tosse suggerì ai medici di fare una radiografia; quando il male mi sbatte in un letto, ho già segnato 10 reti. Perdo nove mesi e praticamente l’anno successivo, poiché il fisico si è appesantito e non è facile eliminare sette chili per rientrare nei limiti abituali. Tant’è che l’estate seguente, invece che in vacanza, resto a Torino a sudare. Ritrovo il mio peso normale dopo diciotto mesi. L’incidente con Munaron, invece, è stato tutto più dolente e faticoso; è un infortunio che lascia il segno e modifica la mia struttura fisica».
Perde l’azzurro più intenso, Bobby Gol. Nella sua storia di calciatore e simbolo azzurro manca quella trasferta spagnola iniziata tra i mugugni e finita in gloria. Brutta botta, ma lui non si perde d’animo e comunque la maglia azzurra riesce a riconquistarla.
L’ultimo atto va in scena il 16 aprile del 1983, a Bucarest: Romania-Italia 1-0 è la recita numero 42. Con questo numero, e col 19 che resta scritto a caratteri indelebili sulla casella delle reti realizzate, il viaggio azzurro si chiude.
Non senza rimpianti.

«Giocare nella Juventus è una grandissima soddisfazione, la più grande della mia vita. Penso che indossare la maglia bianconera sia il sogno di ogni giocatore, il sogno di tutta una carriera; questa mia soddisfazione acquista ancora maggior valore, poiché i miei primi passi li ho mossi, da ragazzino imberbe, proprio nella Juventus».