Gli eroi in bianconero: John CHARLES

Alla fine di un derby, il gigante buono John Charles mostrò, nello spogliatoio, la spalla nuda sulla quale erano rimasti in modo molto chiaro dei segni di denti, perché lo stopper avversario lo aveva morsicato, per fermarlo in qualche modo. A chi gli chiedeva come mai rideva della cosa, John fece rispondere da Sivori, il quale precisò che se mai il gallese si fosse arrabbiato e avesse messo in atto qualsiasi reazione, il dentuto sarebbe morto. Una volta finì contro un palo e rimbalzò inanimato, mentre il palo vibrava. Molti spettatori pensarono all’infortunio del calciatore, ma fu, invece, la tragedia del palo che prese a muoversi a ogni sollecitazione, perché l’urto gli aveva tolto la guaina stretta del terreno. Charles si rialzò quasi subito, scrollando la testa come a rimproverarsi.
Per averlo dal Leeds, la Juventus diede al club inglese, i soldi per ampliare la tribuna del proprio stadio: Prima di fare una stagione breve e infelice alla Roma, Charles riuscì a sistemarsi nella galleria dei grandissimi della Juventus, con un gioco fisico e potente, in contrasto con quello sfavillante e ubriacante di Sivori, con il quale si integrava alla perfezione.
Parlò sempre poco l’italiano, e i colleghi garantivano che parlava poco anche l’inglese. Arrivò a Torino nel 1957 con già tre figli (Sivori, tre anche lui, ne ebbe due quando già stava a Torino) e trovò sempre riparo in essa.
In campo era un grande, riusciva a conciliare la mole con l’estetica, la potenza con la precisione, la gagliardia con la realtà. I compagni lo ammiravano devotamente, gli avversari lo temevano rispettosamente. Chi era costretto a piantargli i denti nella spalla, in realtà doveva imporsi la cattiveria, perché John era uno di quelli che attiravano strette di mano. Una volta raccontò di quando, nel Galles, fece il suo primo viaggio con la squadra. Era in treno, passò quello con i panini offerti dalla società, lui aveva fame, allungò una mano, un anziano della squadra gliela trapassò con un coltello e gli spiegò che aveva mancato sul piano dell’educazione e lo ammonì a dare sempre la precedenza a quelli più vecchi.
John aveva avuto anche esperienza in miniera: lo obbligarono a incidere un disco, raccontando questa storia; lui sosteneva che non era giusto, lui era fortunato e basta, la miniera gli era servita per fargli vedere com’era bello il mondo al di sopra.
Aveva una velocità progressiva notevole e quando capitava che travolgesse un avversario, John subito lo aiutava ad alzarsi e gli chiedeva scusa. Una volta venne a giocare a Torino l’Arsenal e il centromediano era suo fratello, Mel: si diedero sanissime botte per novanta minuti, un bel western di famiglia: mai una cattiveria, sempre un’onesta gagliardia. Fu uno spettacolo.
Disse di lui Farfallino Borel: «Sono oltre trent’anni che seguo il gioco del calcio e posso dire che mai nessun atleta mi ha impressionato nel gioco di testa, come Charles. È senz’altro favorito dalla statura, ma sa contemporaneamente saltare e colpire, con una precisione mai vista fino a quel momento. Nel gioco di testa è completo, sa effettuare il tiro diretto in porta con precisione e potenza e, nel medesimo tempo, sa effettuare il passaggio breve e preciso, per mettere il compagno nelle condizioni migliori per giocare la palla».
John Charles era molto timido. Mai visto uno così rapido nell’arrossire, anche per cose di poco conto. Un cromatismo alla Mammolo di Biancaneve, dolce e assurdo in un uomo così grosso, così forte. John ebbe fama anche per come, unico forse al mondo, seppe reprimere, sino allo schiaffo, l’allegria isteria di Sivori in un match milanese di Coppa Italia. Omar aveva per John un rispetto terribile, nel senso che lo notificava sempre a John, per farlo arrossire, ma intanto lo coltivava pure, lo ammetteva, ne riconosceva la profonda giustizia.
Il compagno Garzena, racconta: «Prima delle partite, avrebbe potuto mangiarsi una bistecca alla valdostana, con il formaggio e tutto il resto. E non aveva mai una lira in tasca; John non aveva mai capito troppo bene il cambio tra lire e sterline, era poco attento ai soldi e all’amministrazione del denaro. Capitava spesso che gli dovessi pagare persino il cinema. Che giocatore, però! Quello che fece nel primo anno alla Juventus, tra goal fatti, goal salvati e assist, non ho mai più visto farlo a nessuno».
Dice di lui Jack Charlton: «John Charles era un uomo squadra. La gente spesso mi chiede chi sia stato il miglior giocatore che abbia mai visto. Ed io rispondo che probabilmente sono stati Eusébio, Di Stéfano, Cruijff, Pelé o Bobby Charlton. Ma il calciatore più efficace che abbia mai visto, quello che ha maggiormente migliorato le squadre in cui giocava, è stato John Charles».
Ancora John: «Boniperti impostava dalla metà campo le nostre azioni. Omar, in fase avanzata, deliziava noi e il pubblico con impareggiabili serie di tocchi, di passaggi e di tiri diabolici. Quando la difesa marcava lui, doveva necessariamente concedermi una libertà, che mi consentiva di piazzare tiri in rete e colpi di testa. Quando i difensori, invece, si gettavano in massa su di me, la stessa libertà di azione, veniva concessa a Sivori e dare respiro a Omar significava incassare delle reti ed essere beffati».
E ancora, quando decise di lasciare la Juventus: «Rimpiango di non essere arrivato prima in Italia, in questo paese magnifico, fatto per gente eccezionalmente simpatica. Se così fosse stato, anche la mia famiglia avrebbe assimilato, come ho fatto io, il vostro modo di vivere. Ma adesso avverto il bisogno di tornare a casa; i miei figli cominciano a essere grandi e mia moglie Peggy sostiene che non possiamo più perdere del tempo. Dovranno vivere in Inghilterra, è necessario che, nel minor tempo possibile, diventino inglesi. Per questo John Charles, vi lascia e vi saluta; io, lo giuro, sarei rimasto tra di voi per sempre. Ma non posso! Non posso proprio!»
John Charles ci ha lasciato il 21 febbraio 2004. Lo chiamavano ogni tanto a Torino per qualche partita di vecchie glorie, il fisico era sempre buono, il suo colpo di testa sempre letale. John trovava sempre gente che gli ricorda un suo goal, e le emozioni e commozioni a esso legate, e lui, gentilissimo, faceva finta di ricordare perfettamente ogni particolare.
D’altronde i suoi goal, di testa o di piede, furono sempre molto simili, perentori e sonanti, largamente annunciati da un volo, da un’avanzata, senza troppa invenzione e fantasia. I suoi goal non facevano arrabbiare i portieri, erano goal buoni, chiari, semplici. Erano John Charles.
ALBERTO FASANO, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL DICEMBRE 1981
Dico subito che Charles è stato e resta un grande amico della Juventus e dell’Italia. Nella sua autobiografia dal titolo “Good bye Juventus”, il formidabile giocatore gallese ha scritto, infatti, che se Gigi Peronace, il talent scout che organizzò il suo trasferimento alla Juve, lo avesse scoperto a diciotto anni, quando ancora aveva sulle mani i calli del lavoro e in corpo tanta forza da spendere, molto probabilmente John sarebbe sceso tra noi senza il biglietto di ritorno per il suo verde paese.
Quando arrivò in Italia per giocare centrattacco della Juventus, Charles aveva già alle spalle dieci anni di attività svolta nelle file del Leeds. Le caratteristiche fisiche e tecniche erano identiche: stessa potenza, stessa vitalità, stesso agonismo. Già allora il suo pezzo forte era il colpo di testa. Lo stesso John raccontava perché era diventato così bravo: solo di rado il giovanissimo stopper poteva allenarsi sul campo della prima squadra e allora si divertiva a ribattere la palla di testa contro il muro degli spogliatoi: ore e ore di esercizi; e alla fine non trovò più giocatore che arrivasse sui palloni alti con prontezza e potenza pari alla sua.
Nel 1949, John indossò per la prima volta la maglia della Nazionale del Galles nel match con l’Irlanda. Aveva solo diciotto anni. Non era stato un esordio esaltante, ma il buon Charles non ebbe nemmeno il tempo per riflettere sui molti errori commessi che si ritrovò sotto le armi per il servizio di leva.
Lo mandarono a Darlington, una cittadina distante cento chilometri da Leeds. Dopo aver fatto il ragazzo di fatica negli stadi il giocatore diventò di colpo carrista, costretto tutte le mattine ad alzarsi alle cinque, vestire la tuta mimetizzata e lustrare quei maledettissimi carri armati sui quali un tenente pignolo trovava sempre qualcosa di sporco. La sua piccola fama di calciatore servì tuttavia a salvarlo in tempo. Fu aggregato alla compagnia sportiva e ogni settimana poté fruire di tre giorni di licenza per giocare le partite di campionato con il Leeds. Pareva aprirsi un periodo felice!
Un giorno il capitano Smith si accorse che il soldato semplice John Charles era alto 187 centimetri e pesava settantacinque chilogrammi: «Tu diventerai un grande pugile – gli disse – al reggimento manca un peso medio per i campionati militari!»
Lo mandarono in palestra, gli insegnarono che cos’era il gancio e l’uppercut. John è sempre stato essenzialmente un buono: saliva perciò sul quadrato con una paura matta di far male all’avversario (ed anche di farsi male). Alla fine del primo e unico anno di attività pugilistica, il suo ruolino parlava di dieci vittorie su dieci incontri, cinque ai punti e cinque per KO. Ma a John Charles, chiaramente, il pugilato non interessava affatto. E venne in suo soccorso il maggiore Gordon, appassionato di calcio e più alto in grado del capitano Smith. Alla nazionale militare occorreva un centromediano: e Charles tornò ai verdi rettangoli del calcio.
Nel 1951, tra incontri giocati per la Nazionale Militare e quelli disputati per il Leeds, toccò il limite record di 100 partite in nove mesi. Due anni dopo portò la sua Peggy all’altare, quella Peggy che poi gli regalò tre stupendi ragazzi, forti come il padre: Terry, Melvin e Peter.
All’inizio del 1957 Gigi Peronace, incaricato da Umberto Agnelli di portare alla Juventus un forte centrattacco, fece senza riserve il nome di John Charles. In Italia la cosa non era sfuggita ad altre società. La Juve aveva offerto 55.000 sterline; offerte maggiori furono fatte dalla Lazio (attraverso l’allenatore inglese Mister Carver) e dall’Inter (per interessamento del General Manager signor Valentini). Il Real Madrid arrivò addirittura a offrire 70.000 sterline. Ma la Juventus era arrivata prima e Umberto Agnelli, dopo aver visto personalmente all’opera il giocatore gallese nel confronto internazionale tra Galles e Irlanda, firmò il contratto con Mister Sam, presidente del Leeds. La firma avvenne in una sala del Queen Hotel.
John Charles arrivò in Italia il 3 aprile 1957. In serata, con un volo da Roma, il gigante gallese era a Caselle. Il giorno dopo era già in campo per un provino-allenamento. Giampiero Boniperti fu il primo a stringergli la mano e a consegnargli la maglia bianconera con il numero nove sulla schiena. Poi John tornò per breve tempo in patria e diventò italiano l’11 giugno di quello stesso 1957. Nella Juventus, oltre a Boniperti, trovò quell’altro fuoriclasse che era Omar Sivori.
I tre campioni si integravano a meraviglia: Boniperti e Sivori mettevano a disposizione di Charles i tesori della loro classe, della visione di gioco, del palleggio, del mestiere; e il grande King John sfornava reti su reti: ne segnò ventotto in trentaquattro partite nella sua prima stagione in bianconero, stagione che, non c’è nemmeno bisogno di ricordarlo, si concluse con la vittoria dello scudetto. John non ha mai dimenticato l’esplosione di gioia con la quale fu festeggiato quel grande successo. I tifosi, che già avevano da dividere le loro simpatie tra Boniperti e Sivori, avevano trovato un nuovo idolo.
È chiaro che le difese di tutto il campionato si coalizzarono, invano, per frenare l’impeto irresistibile di quel gigante che partiva da lontano con velocità sempre crescente e che non si arrestava se non quando aveva visto la palla in fondo la rete. Charles di botte ne prese moltissime, ma non ricordo un suo gesto di reazione, un suo fallo cattivo. Durante una partita nella quale aveva preso calci e gomitate un po’ da tutti, si rivolse a Boniperti dicendogli con aria supplichevole: «Boni, fai tu qualcosa, difendimi: io non ne sono capace!»
Era di una bontà incredibile. Nel corso di una gara molto equilibrata con l’Inter, mentre il risultato era fermo sullo 0-0, Charles correva verso la porta avversaria, affiancato da un avversario; nel tentativo di svincolarsi, senza intenzionalità, John diede una gomitata in un occhio al neroazzurro; l’arbitro non fischiò e il centrattacco juventino ebbe via libera. Ma John, il Gigante buono, si arrestò e soccorse l’avversario caduto a terra.
Tra i tanti goal epici realizzati da Charles, vorrei ricordarne uno messo a segno al Comunale contro il Bologna. Un’azione di contrattacco, con John che partì dalla propria area di rigore, puntando diritto verso la porta rossoblu. Se non ci fosse stato l’urlo della folla, si sarebbe potuto sentire lo scalpitare dei suoi zoccoli di bufalo lungo tutto il campo. In quegli ottanta metri gli si pararono contro almeno in sei avversari, spingendolo, urtando, cercando con ogni mezzo di fermarlo. John non si fermò: sbuffando come un treno, abbassando la testa come un rinoceronte, scardinò ogni ostacolo, riuscì a trovare la coordinazione per un breve scambio con un compagno ed entrò in rete con la palla al piede.
Guardarlo da vicino quando entrava in campo, metteva paura, incuteva rispetto. Era un gigante tirato su a bistecche, spalle fortissime, lombi muscolosi, cosce corte e dure, resistente alla fatica, atleticamente irresistibile. Nelle mischie il suo balzo veniva fuori rapido, come quei barattoli cinesi dai quali, svitato il coperchio, scatta su la testa di un drago. Quella di Charles era una testaccia da catapulta, che sparava più forte e più fulminea delle sue scarpe. La sua potenza era contrappesata da un incredibile equilibrio morale, dalla lealtà, dalla coscienza che egli non stava guerreggiando, ma giocando a football per divertire il pubblico e far punti per la sua Juventus.
Il suo corpo era irregolare, disarmonico: gambe corte, come ho già detto, fianchi bassi, piedi piccoli. Una macchina, però, che risultava perfetta quando si metteva in movimento per catapultare il pallone nella rete avversaria. Il suo modo di correre era addirittura buffo, con quelle lunghe braccia ciondoloni lungo i fianchi, più avanti del corpo, lasciando i polsi disarticolati. Aveva un gioco semplice, ma estremamente redditizio, i suoi passaggi perfetti, specie se effettuati di testa: in area di rigore terrorizzava le difese.
Quando era lanciato pareva un carro armato, munito di un solo cannone, la testa, che demoliva i più solidi muri umani. Malgrado fosse e si sentisse un autentico cannoniere, John non fu mai un egoista nel gioco: per lui era importante soprattutto che la sua squadra facesse i goal, non che li segnasse lui personalmente. Ha lasciato in tutti i bianconeri e negli sportivi italiani un ricordo affettuoso, carico di simpatia e amicizia.
Restò alla Juve sino al 15 aprile 1962, per cinque stagioni; poi passò alla Roma. E infine fece ritorno al verde Galles. Ricordo quanto scrisse un pittoresco cronista inglese sul “New Chronicle” quando il mondo calcistico d’oltre Manica fu informato che Charles sarebbe passato dal Leeds alla Juventus: «Se ne va John Charles, il calciatore che ha le fattezze di Marlon Brando, la struttura di un peso massimo, le gambe di un velocista in bicicletta, il fiato di una tigre e il mortale morso di un cobra».
Una serie di frasi che strapparono a John un largo e divertito sorriso. Ogni tanto John torna ancora da noi, magari per divertirsi insieme ai vecchi amici in una partita di vecchie glorie. Lo accogliamo sempre con immenso affetto.