Gli eroi in bianconero: Gianfranco LEONCINI
Nasce a Roma il 25 settembre 1939, a due passi da Piazza di Spagna, in una casa modesta che guarda l’angolo suggestivo e romantico, dove i turisti di tutto il mondo trascorrono la maggior parte della loro visita alla Capitale. Da ragazzino ci andava anche lui per vedere la gente e gli piaceva correre su e giù per le lunghe scale che dominano l’antica piazza e la monumentale fontana, a due passi da palazzetti che ospitarono personaggi celebri come Byron e Shelley. Aveva, una folta capigliatura bionda, con i riccioli che gli cadevano sulla fronte e lo sguardo vivacissimo. Con i compagni non litigava quasi mai; i loro giochi innocenti consistevano nel gareggiare a chi arrivava prima sulla scalinata di piazza di Spagna.
Un giorno come tanti altri di quel febbraio che a Roma ha il tepore della primavera, Gianfranco Leoncini inseguiva il pallone sul tappeto erboso del campo dei Cavalieri di Colombo. Fra lo scarso pubblico c’era Gigi Peronace, che osservò il ragazzo dalle folte chiome ed al termine della partita gli parlò a lungo. Poche settimane dopo, Leoncini ricevette una telefonata ed un invito. Doveva recarsi a Torino per essere visionato dai tecnici della Juventus.
«Non avevo mai fatto i bagagli prima di quel giorno, se non per le vacanze estive od una gita di fine settimana. Ma ora avevo di fronte un viaggio lungo ed importante. Non dimenticherò mai quei settecento chilometri di treno dalla Capitale a Torino, né il saluto dei genitori, di mia sorella Rosanna e di mio fratello Manlio. Erano commossi ed io più di loro. Non osavo piangere, ma lo avrei fatto volentieri per sfogare tutte le preoccupazioni che avevo dentro. Un viaggio che mi parve interminabile. Leggevo, passeggiavo nel corridoio, chiacchieravo. Però Torino sembrava dall’altra parte della Terra. Poi, finalmente, ecco la stazione di Porta Nuova, la notte in albergo ed il mattino seguente l’appuntamento al campo. Avete mai provato a prendere a calci un quintale di ferro? Neppure Maciste sarebbe riuscito a spostarlo. Quel mattino col pallone avevo la sensazione di prendere a calci un enorme pallone di ferro».
Il provino, invece, risulta positivo. Gianfranco Leoncini tesserato dalla società bianconera, comincia nella città piemontese la sua nuova attività di calciatore professionista. L’esordio, le attese, le paure sono ora un ricordo leggermente sbiadito. Ogni domenica che passa Leoncini si sente più sicuro e forte. La gente, che dapprima guardava con curiosità e perplessità questo nuovo acquisto, finisce col considerarlo uno di casa, un amico fraterno. Leoncini firma il suo primo contratto di calciatore ed entra nelle file della grande società.
È stato un balzo notevole; qualcosa come una favola di Cenerentola. Fino a quel giorno la sua attività era limitata ad una squadra di calcio di un rione di Roma: l’Augusta. L’avvenire è incerto, le speranze poche. In casa gli dicono che avrebbe fatto meglio a mettere la testa a partito, cercando qualcosa di più sicuro o nello studio o nel lavoro. Ma Gianfranco abbassa gli occhi e ruba al tempo i sogni.
È inglobato nei quadri della prima squadra per la stagione 1958-59; l’anno seguente è già titolare, ma per l’affermazione definitiva, occorre ancora la prova del fuoco, una prestazione che lo consacri qualcosa di più di una semplice speranza per il futuro del calcio bianconero. Tale prova non tarda a venire: a San Siro contro il Milan, che in quella stagione è l’avversario numero uno per la conquista del titolo, Gianfranco se la deve vedere con un avversario molto scomodo, Grillo. Il bianconero, non solo collabora validamente alla conquista di una vittoria decisiva per il campionato, ma si laurea giovane campione, vincendo un duello che in partenza sembrava impari.
Da allora Leoncini non ha più perso una battuta della sua Juventus, tanto è vero che in bianconero si ferma per dodici anni durante i quali mette insieme 377 partite e 25 goal. Protagonista generoso del centrocampo, anche se in molte occasioni è utilizzato come difensore esterno, mai domo ed in possesso di una volontà feroce, è pedina fondamentale della Juventus del “movimento” di Heriberto Herrera. Un vero stantuffo in campo, propenso all’offensiva, dal momento che il suo tiro lascia sovente il segno, sa anche adoperarsi nel lavoro difensivo con il vigore e l’esuberanza che il ruolo richiede.
Con i colori bianconeri lega il suo nome a 3 scudetti (1960, 1961 e 1967) e ad altrettante edizioni della Coppa Italia (1959, 1960 e 1965). La Juventus lo cede all’Atalanta nell’estate del 1970, raggiunge in seguito il Mantova e poi torna a Bergamo dove in nerazzurro conclude l’attività. Nel 1966 il commissario tecnico Edmondo Fabbri lo inserisce nell’elenco dei 22 per lo sfortunato mondiale disputato in Inghilterra. Gioca 2 partite con la Nazionale A, 1 con la B e 3 con la Giovanile.
Un aneddoto, raccontato dallo stesso Leo: «Nel 1958, andammo a Parigi per disputare un’amichevole; contro di noi, giocavano Kopa e Fontaine. Per tutti noi quella amichevole costituiva un vero e proprio evento, non come adesso che si va in America, quasi in gita. La sera prima dell’incontro noi giocatori, peccando di professionalità, assistemmo, ad uno spettacolo al Moulin Rouge, dove fior di donne si esibivano in costumi succinti. Il giorno della partita furono dolori; alla fine del primo tempo eravamo sotto per 2-0 ed il barone Mazzonis venne nello spogliatoio e ci disse che, se avessimo perso la partita, si sarebbe scoperto quanto avevamo fatto la sera prima. Il barone era preoccupato che la stampa ed i tifosi ci avrebbero criticati per quell’uscita notturna ed avrebbero trascurato il particolare che la divagazione nella notte parigina era del tutto innocente. E temeva che il presidente Umberto, rimasto a Torino per ragioni di lavoro, non gli perdonasse l’imprudenza. Omar si rimboccò le maniche ed i calzettoni, ci trascinò verso un 4-2 trionfale. Facemmo divertire Parigi, in un’atmosfera indimenticabile».
VLADIMIRO CAMINITI
Quello fu uno scudetto rabbuiato da Heriberto che proibiva i grissini, ma consentiva il whisky come aperitivo, invitando a casa al mattino i cronisti per una conferenza sul calcio e spiegando nel suo italiano ostrogoto. Quello fu uno scudetto abbastanza difficile, e contestato anche in famiglia, coi figli di papà che trovavano questo allenatore paraguaiano ottocentesco e dagli occhini neri spiritati, solamente un matto, mentre era un tecnico forte, consapevole, preparato, anche se con un fondo di natura ancestrale negata a rapporti idilliaci. Della Juventus che colse dall’albero di Mantova (un errore piramidale del portiere di Giuliano Sarti), all’ultima domenica del campionato di calcio nel 1966-67, uno scudetto tra i più meravigliosi sul piano morale e sportivo, fu proprio Gianfranco Leoncini una delle colonne, difensore caparbio e possente sia nel chiudere, che nelle discese palla al piede. Leoncini sulla fascia sinistra, ma anche impiegato da mediano, dava sempre un contributo notevolissimo sul piano della corsa; e la sua efficacia tattica corrispondeva alla sua partecipazione, al numero di palloni conquistati, alla sua abnegazione. Delle sue tante partite, non ne sbagliò mica tante; se non piaceva agli esteti con la puzza sotto il naso, dispiaceva agli avversari. Nel contesto di un calcio collettivistico (il “movimento”) che anticipava il futuro, l’indefessa azione di Leoncini puntellava la squadra in zone cruciali, garantiva solidità e carattere.
GIANNI GIACONE, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL DICEMBRE 1974
Ci fu, alla metà degli anni Cinquanta, un trainer bianconero che coraggiosamente ed anche un po’ per forza di cose, fece ripetuta professione di fede nei giovani. Puppo, così nominavasi costui, non ebbe dalla sua la fortuna e nemmeno i giovinetti della sua nidiata ottennero tutti quel successo e quella affermazione che era nelle attese. E comunque quella parentesi lasciò tracce indelebili nel successivo, immediato futuro della Juventus. Nel senso che anche i trainer che presero le redini della squadra dopo di lui concessero spesso e volentieri a speranzosi giovani l’opportunità di mettersi in luce, al fianco (stavolta) di rinomati campioni quali Charles e Sivori. In una formazione comprendente praticamente il meglio di quanto offrisse il nostro campionato, lasciare spazio anche ai più giovani ben si comprende quanto fosse importante. Gianfranco Leoncini, romano presto trapiantato dalla capitale nazionale alla capitale juventina, è uno degli esempi più lampanti di fiducia (meritatissima) accordata dai tecnici bianconeri di quegli anni ad ‘un giovane del vivaio.
Il Leoncini prima edizione, quello che sfuma nella leggenda rodomontesca dei primi anni sessanta, ruota intorno a questo elementare concetto. Esordire a vent’anni in campionato, nella stagione 1958-59, in una formazione così ridondante di nobiltà pedatoria, è la miglior premessa per una car-riera lussuosa. I fatti confermeranno. Ma andiamo con ordine.
C’era Broćić, tecnico jugoslavo poliglotta, magari bravo ma strambo parecchio, quell’anno. C’era, ma poi di colpo non c’è più. Qualcosa, in quella Juve che l’anno prima ha rispolverato gli entusiasmi mai sopiti ma a lungo trattenuti delle sue folle di tifosi, non funziona come dovrebbe, ci sono sconfitte rocambolesche a guastare la media scudetto; il Milan rifila cinque pappine ai bianconeri, al Comunale torinese, e Broćić deve fare le valigie. In primavera, quando Leoncini nostro fa il gran debutto in prima squadra, sulla panca già siede il fido Baldo Depetrini, accorso a dirigere i bianconeri nell’ultima fetta di torneo. 12 aprile 1959, ecco la data del debutto. Il Vicenza, bestia nera, infila Mattrel con il lesto Conti, e la Juve proprio non ce la fa a rimediare. Leoncini gioca mediano sinistro, al posto di Colombo a sua volta utilizzato mezzala al posto dell’infortunato capitano Boniperti.
È un debutto così così, comunque non male: Rinone Ferrario pilota la difesa tutta, le sue ciabattate spazzano anche la paura dell’esordiente Leoncini, che deve passare la palla a Charles e Sivori, e dunque legittimamente si emoziona. Ancora in trasferta, quindici giorni più tardi, farà meglio, segnando persino un goal alla Sampdoria. Solo tre presenze, al rendiconto: ma l’abbiamo detto, è entrato in squadra soltanto in primavera, a poche giornate dal termine. Saranno di più le presenze del campionato successivo: otto in tutto, con due reti. Leo segna a Ferrara nel tennistico 6-3 ai danni della Spal, ed in casa col Padova, sette giorni dopo. Si, anche il 1959-60 è per Leoncini stagione interlocutoria. Terzino o mediano, l’importante è giocare: ma davanti al ragazzo ci sono professionali di araldica compostezza come Colombo e Sarti ed Emoli, ed ardimentosi guardiani quali Garzena e Cervato. L’anticamera, del resto, non è breve ma neppure lunghissima.
Il 1960/61 già vede Leoncini lanciato stabilmente nell’orbita della prima squadra, come tipico jolly difensivo. Ora al pasto di Emoli, ora in alternativa a Colombo o Sarti: si fa presto ad accumulare gettoni di presenza. Alla fine saranno 21: ha giocato più dello sfortunato Emoli, più di Castano, più dell’altro giovinetto Burgnich. Ma come ha giocato? Già, le cifre non bastano certo per dare un’idea dei primi anni di Leoncini bianconero. Terzino d’ala abbastanza avanzante, oppure mediano laterale di impostazione classica, con compiti di contrasto della mezzala avversaria, Leoncini ha il piglio e la grinta necessari per sopperire a qualche errore di misura, causato più che altro da esuberanza. Colombo è certo più posato, più accademico e quasi distaccato: Leoncini si fa preferire per le sue dati di cursore veloce e resistente alla fatica.
La cessione del primo, al termine della stagione culminata con la conquista del 12° scudetto, pone fine ad un dualismo tecnico inevitabile, e propone finalmente con stabilità il nome di Leoncini nella formazione tipo bianconera. 29 volte sarà presente Leo nel malaugurato 1961-62. La Juve che non è più Boniperti pur continuando ad essere Sivori e Charles, non è più la stessa Juve, nonostante i progressi di qualche giovane ormai affermato, e di Leoncini in particolare. Proprio Leo tra i protagonisti alla rovescia del finale di stagione: anzi, la stagione manco può finirla. In Juve-Sampdoria 0-1, 25 marzo 1962, si lascia trascinare dai nervi ed il suo nome finisce nella lista nera (con Sivori e Mora) dell’arbitro Grignani. Squalifica, ed arrivederci all’anno dopo, che è anche l’inizio dei secondo periodo juventino del nostro.
Arriva Amaral dal Brasile, ed arrivano con lui certe gustose novità tattiche. Per la verità, Leoncini non è dei più coinvolti nel complicato giro di numeri e compiti nuovi assegnati dal trainer: col quattro o col sei sulle spalle, Leo assume semmai una posizione più avanzata, a sostegno dei centrocampisti, con al fianco Del Sol il sivigliano. In questo modo, incide certo più che in passato nell’economia del gioco bianconero. Un gran goal perduto nel nebbione (al Comunale, contro il Venezia), tanto per non perdere l’abitudine a segnare, e per dimostrare ai fan di possedere anche una discreta potenza e precisione di tiro; il resto è ordinaria amministrazione, in un campionato che parzialmente riscatta i bianconeri dalle amarezze dell’anno prima. Il regno di Amaral resiste lo spazio di un campionato, la parentesi di Monzeglio gentiluomo di campagna è anche più breve. È già in arrivo Heriberto Herrera, è l’estate 1964. Leoncini, che pure ormai si è affermato pienamente, deve ancora conoscere i momenti di maggior fulgore agonistico. Nel 1963-64 è stato presente 32 volte.
Heriberto, nell’accordargli piena fiducia, lo responsabilizza ulteriormente, chiedendo a lui come agli altri un sempre crescente contributo dinamico. Risultato: Leo diventa insostituibile colonna della Juve “heribertiana”. Non c’è stata metamorfosi tecnica o tattica: terzino o mediano era, terzino o mediano rimane. Come terzino, esaspera la propria tendenza a fluidificare, sorreggendola con un invidiabile senso della posizione. Come mediano, assume compiti di regista arretrato prendendo di volta in volta in consegna il rifinitore avversario. Heriberto ci può contare ad occhi chiusi, sin dal primo campionato, il 1964-65: 31 presenze e 2 reti, una al Genoa nel giorno dello storico cappotto (7-0) e l’altra nel derby di ritorno (1-1). La difesa bianconera risulta quell’anno la meno perforata del torneo ed il prezioso filtro di Leoncini contribuisce in misura determinante al raggiungimento di questo significativo traguardo.
Ma l’anno qualitativamente più esaltante per il nostro deve ancora venire. È infatti la stagione successiva, 1965-66, la più valida in assoluto e la più prodiga di soddisfazioni per Leoncini. Migliore anche dell’annata scudetto? Si, almeno a nostro avviso. Lo scudetto numero 13 è frutto di un appassionato lavoro di tutta l’équipe bianconera, e viene faticosamente costruito con le sgobbate domenicali di tutti gli uomini di Heriberto. Il 1965-66 è più in particolare annata monstre per Leoncini, che c’entra tra l’altro in questa stagione l’obiettivo, a lungo inseguito, della maglia azzurra. La classe ed il costante rendimento di Leoncini illuminano la stagione bianconera dall’inizio alla fine.
Avviatosi con ottimi auspici, anche nelle vesti di realizzatore (segna tra l’altro una doppietta al Vicenza ed un goal alla Spal), Leo finisce in crescendo raggiungendo il culmine in occasione della classica Juventus-Milan, che si chiude con la netta affermazione dei bianconeri (3-0). Una cosa deliziosa è il duello del nostro con Gianni Rivera: duettare di fioretti, in prospettiva di convocazione azzurra, con Leoncini straripante di furore agonistico, migliore in campo, pure autore di una rete bellissima.
Mondino Fabbri lo vuole finalmente nella sua Nazionale che prepara fasti e (soprattutto, ahimè) nefasti dei Mondiali in terra britannica. Siamo all’apogeo: se vogliamo, non fila proprio tutto liscio, almeno all’esordio tra i moschettieri. L’Italia batte sonoramente (3-0 l’Argentina al Comunale torinese), ma non è una bella partita, troppo essendo il nervosismo tra i 22 in campo. Leoncini, ad un certo punto, fa le spese di una situazione fattasi più che delicata, e l’espulsione decretata contro di lui viene un po’ a guastare la gran festa del battesimo in Nazionale. Aprendo a questo punto una doverosa parentesi, occorre dire che certo Leoncini non ebbe la fortuna di entrare nel club Italia in un momento dei più propizi. E questo, inevitabilmente, spiega le sporadiche apparizioni del nostro in maglia azzurra. Ai Mondiali, gioca una sola partita, quella persa di misura contro l’URSS. Contro la Corea, a Middlesbrough, non viene utilizzato.
Nel mare delle polemiche seguite alla clamorosa eliminazione, Leoncini si ritrova più fuori che dentro: è già cominciato un nuovo campionato, La Juve naviga in testa ed alla fine vincerà il più sofferto scudetto della sua storia. Leoncini si conferma grande: è presente 31 volte, all’attivo ancora tre reti, tutte nella fase iniziale del torneo. Il secondo periodo del Leoncini bianconero, certamente il più felice e positivo, si conclude praticamente qui.
Il terzo e conclusivo periodo juventino del nostro, contrariamente alla norma, non è caratterizzato da declino e progressivo emarginamento. Leoncini fornisce, sino alla vigilia degli anni settanta, il suo costante e prezioso contributo di gioco, risultante ancora tra i più presenti; anzi, il più presente. 20 volte gioca Leo nel 1967-68, e per certi versi è anche più consistente il suo contributo l’anno dopo, ultimo dell’era “heribertiana”. Si potrebbe chiosare ognuna delle 30 partite giocate da Leo in quel campionato disputato dalla Juve ad un livello inferiore alle attese dei supporter per una serie infinita di ragioni. A trentuno anni, Leoncini fornisce una prova di grande attaccamento ai colori juventini ricucendo le file di una formazione ricca di freschi talenti ma povera di amalgama e di mentalità vincente. Ancora due goal: uno al Pisa e l’altro alla Sampdoria, nell’ultima giornata del torneo.
Chi può dire se è più bravo il Leoncini comprimario dei rodomonteschi Charles e Sivori o quello, ben più maturo ma ancora più che mai sulla breccia, che accompagna la Juve nel trapasso agli anni settanta nuovamente prodighi di successi esaltanti?
Sono due aspetti neppur troppo diversi del personaggio juventino, che crea in 12 stagioni di servizio i presupposti per una leggenda niente male: 289 presenze, comprendendo nel conto anche i 13 gettoni messi assieme l’anno dopo, agli ordini prima di Carniglia e poi di Rabitti. 289 presenze, proprio come un altro grande difensore del passato, a nome Piero Rava: il paragone è forse irriverente? Crediamo di no. Leoncini ha vinto molto, tre scudetti e tre Coppa Italia sono un bottino grande; anche il suo personaggio, di troppo fresca memoria forse per essere suscettibile di valutazioni più distaccate, è figura decisamente di primo piano.