Gli eroi in bianconero: Gaetano SCIREA
Nasce a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio 1953. Comincia la sua strada di calciatore nel ruolo di punta, anzi, di centrattacco. Dopo aver giocato sempre nel ruolo di attaccante nei ragazzi della squadra del San Pio X, firma il primo cartellino per i colori dell’Atalanta. È un suo amico, Crinella, a portarlo a Bergamo per un provino. Il dottor Brolis, addetto al settore delle giovanili neroazzurre, gli fa firmare il cartellino: Gaetano ha quattordici anni.
Sotto la guida di Capello e Castagner, Scirea è utilizzato in prevalenza all’attacco, qualche volta ala e qualche volta interno. Come interno gioca due stagioni nella Primavera della squadra orobica. Benino, ma senza squilli di fantasia: «Capello mi ha salvato! Ero, infatti, sul punto di lasciare il calcio. Credevo di aver sbagliato mestiere; mi sembrava di essere un fallito».
Capello, infatti, un bel giorno decide di impiegarlo nel ruolo di libero: «La maglia che abitualmente indossavo era quella di mezzala, e a battitore libero giocava Belotti, il mio amico Vittorio. Poi Belotti si ruppe una gamba (stavamo giocando a Melegnano) e Capello, l’allenatore, decise su due piedi di sostituirlo proprio con me, una mezzala. Ricordo tutto di quegli anni. E con un certo piacere rammento il successo ottenuto nel campionato Primavera nella doppia finale con la Roma, 2–2 fuori e 2–1 in casa. Il nostro allenatore era Castagner, allora giovanissimo. Uno che di pallone ne capiva parecchio, te lo assicuro».
Per un infortunio capitato a Savoia, Gaetano si vede schiudere le porte della prima squadra. È la stagione 1972–73, Scirea disputerà venti partite di fila in serie A, guadagnandosi il bastone da titolare per la successiva stagione nei cadetti. Corsini è stato il tecnico che lo ha lanciato nel massimo campionato. Heriberto Herrera quello che lo ha affinato, dandogli le attuali dimensioni di libero di gran lusso.
Gaetano diventa ben presto un uomo mercato e, tra i tanti osservatori che lo spiano, c’è Romolo Bizzotto; il suggerimento di tenere Scirea sotto osservazione pare sia partito dall’ex bianconero Bonci. Fatto sta che qualcuno lo dice a Gaetano ma lui, timido e semplice, pur guardando alla Juventus con occhio languido, non riesce a crederci. «Il campionato era finito ed io ero a casa, senza particolari preoccupazioni. A un certo punto mi venne a trovare Brolis, un dirigente, e senza molti preamboli mi comunicò che la Juventus mi aveva acquistato, dovevo andare a Torino alle visite mediche. Impazzivo dalla felicità. E quella notte, credimi, non ce la feci proprio a prendere sonno. Sembrerà forse una scontatezza, ma è la pura verità. Credo che ogni calciatore, forse anche ogni ragazzino, abbia sognato una volta nella vita di arrivare a far parte della Juventus. Io ci ero arrivato davvero».
Lui pensa a uno scherzo ma, arrivato a casa, trova l’intera famiglia in agitazione. Fu una festa e ci scappò anche il brindisi, confessa lui ancora emozionato al ricordo. Poi le visite, la conferma, l’appuntamento al ritiro del 29 luglio: «Mi ricordo che non volevo scendere dalla macchina sulla quale mio fratello mi aveva accompagnato». E il fratello dovette quasi tirarlo giù di peso.
A Villar Perosa è messo in camera nientemeno che con Bettega. «Fui fortunato. Giunsi alla Juve proprio in coincidenza con l’abbandono di un campione del calibro di Salvadore ed evidentemente dovevo già godere della stima dei responsabili, visto che mi si diede senza problemi la maglia numero sei». L’ingresso in squadra, dopo la preparazione lo ricorda con sofferenza: «La prima partita in Coppa Uefa, mi faccio male alla caviglia. Così, appena cominciato, sono stato costretto a fermarmi per due partite in campionato. Provavo tanta gioia ma spesso scendevo in campo con le gambe che tremavano, mi ha aiutato la squadra vincendo lo scudetto, il mio inserimento non poteva coincidere con miglior risultato».
Pagato quello scotto, Scirea gioca ben ottantanove partite consecutive, partecipando alle emozioni e alle gioie degli scudetti più brillanti, quello dei cinquantuno punti e alla conquista della Coppa Uefa. E, a ogni partita, l’impegno per essere sempre all’altezza della situazione: «Giocare libero è un impegno continuo. Devi controllare tutti e nessuno. Devi possedere un intuito eccezionale. Capire quando il terzino parte avanti e prendere subito in consegna l’attaccante che resta incustodito, tenendo ben presente lo spazio dal quale possono venirti le sorprese del contropiede. Poi, quando intervieni, devi cercare non solo di liberare l’area, ma appoggiare il gioco in maniera da far ripartire i tuoi; semplice da dire, ma provate a farlo, quando il gioco è veloce e tutti sono in condizione di metterti in difficoltà».
Per lui, nulla sembra essere eccezionale, poiché ha imparato a misurare con il metro del buonsenso ogni fatto della vita, da quella intima di casa, a quella professionale di giocatore di calcio: «Così riesco a far durare di più il piacere delle cose buone e ben fatte e tengo sempre davanti alla mente che, se rifletto un pochino di più sugli errori, posso evitare di ricadervi. Sono stato baciato in fronte dalla fortuna. La vita che facciamo è bellissima, piena di agi e di soddisfazioni sia economiche che personali. Quando qualcuno mi domanda che cosa può perdere, un ragazzo, decidendo di fare il calciatore, non so che dire, Mi sembrerebbe di prendere in giro me stesso e tutti i ragazzi che, per ottenere una minima parte di quanto otteniamo noi, sono costretti a fare lavori più faticosi e umili».
Qualcuno lo rimprovera dicendo che sia “troppo buono”, e quindi incapace di sfoderare, una volta sul campo, quella grinta e quella cattiveria che, a certi livelli, sono ritenute doti indispensabili. «Non è vero niente. E con questo non voglio dire, sia chiaro, di essere un tipo “senza cuore”. Ma in campo so farmi rispettare e, se non fosse così, non avrei certamente potuto arrivare ai livelli cui, da tempo, mi sto esprimendo. D’altronde, la decisione e un pizzico di cattiveria sono ingredienti indispensabili di ogni contesa, un buon professionista non può rinunciarvi. E poi non è detto che, una volta in campo, un atleta debba necessariamente portarsi dietro tutto di se stesso. Scirea giocatore non è l’immagine di Scirea uomo».
Quattordici anni di Juventus. Una scelta di vita che lui commenta così: «Certo che avrei potuto anch’io, con l’arrivo dello svincolo, spuntare contratti faraonici, ma di squadre come questa ce n’è una sola. Ed io preferisco concludere la mia carriera alla Juventus. Senza fretta, però, ho il conforto dell’esempio di Zoff, un uomo che mi ha insegnato a non guardare indietro».
Ha vinto tutto: sette scudetti, due Coppe Italia, Supercoppa, Coppa Intercontinentale, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa e Coppa delle Coppe, senza dimenticare il Mundial spagnolo. Ha sempre giurato di divertirsi troppo in campo, ogni partita è un avvenimento che lo affascina, aver tagliato tutti i traguardi possibili non l’ha mai accontentato.
Il 1976–77 è forse la stagione più esaltante della Juventus ultimo decennio: quella dello scudetto dei cinquantuno punti e del primo grande successo europeo, la Coppa Uefa: «Era la Juventus che dava sette o otto giocatori alla Nazionale. Una Juventus splendida, costruita da Boniperti pezzo su pezzo, da grande intenditore», ricorda. La Juventus che ha consegnato a Bearzot la Nazionale d’Argentina. «Per due volte ha capito che nel calcio non si finisce mai di imparare. È stato quando, dopo aver vinto lo scudetto con Parola, l’anno successivo, a sette giornate dalla fine, con cinque punti di vantaggio rispetto al Torino la squadra perse tre partite di seguito e consegnò il titolo ai cugini granata. E, più grande di tutte, la delusione di Atene, la Juventus più bella, quella che era giunta in finale dominando squadroni come Widzew Łódź, Aston Villa e Standard Liegi».
La Juventus gli ha dato molto, gli ha spalancato le porte della Nazionale: «Ma è facile arrivare a certi livelli, il difficile è restarci», raccomanda sempre Scirea. E non dimenticherà mai che insieme a lui, in Nazionale, cominciò Rocca: «Ecco, lui è il caso sfortunato, quello che dimostra come sia tutto così aleatorio. In quel momento era una pedina inamovibile, un esempio per me e tanti altri che si affacciavano alla maglia azzurra».
Gaetano Scirea è anche un buon marito, un buon padre, ama il cinema e pratica il tennis, sport preferito dell’estate. La famiglia è la sua oasi di pace, il rifugio di chi vive nel frastuono del mondo dello spettacolo. Ogni partita ha una sua fisionomia per cui, al termine di ogni incontro, Scirea si sente in dovere di analizzare, per conto suo, ogni azione giocata: «E mi critico e mia moglie mi critica ancora di più. Ma, devo dire, che i suoi interventi mi sono di aiuto, perché parla con serenità e la serenità ritrovata in casa, è il miglior sistema per distendersi. Ho sposato una juventina che mi ha portato una famiglia deliziosa. Ho imparato tante belle cose del Vecchio Piemonte, compreso il culto del vino buono, che ho imparato a fare da mio suocero nel Monferrato. Quando posso aiuto in cantina. Ma mi hanno detto che sono più bravo a fare il calciatore».
«Mio marito – racconta Mariella – ha una qualità-difetto grossa come una casa, la modestia. Lui dice che, a volte, parlo come un direttore sportivo ma, secondo me, dovrebbe farsi valere di più. È testardo, poi crede di essere preciso, mentre non lo è per niente. Quante volte Gai, dopo l’allenamento, mi piombava a casa all’ora di pranzo con quattro sconosciuti. Diceva: “Mariella, questi signori hanno fatto centinaia di chilometri per venire a vedere la Juve ed ho pensato che dovevano pur mangiare qualcosa”. Ecco, questo era Gaetano Scirea fuori dal campo». Scirea rimane soprattutto un calciatore onesto e felice: «Perché ho amato questo sport fin da piccolo e sono riuscito a fare questo mestiere».
Il destino lo ha portato via il 3 settembre 1989, in una strada polacca; nulla è più atroce che morire giovani. Per Mariella e Riccardo, una scatola piena di ricordi e l’esempio di un uomo e di un padre che non potrà mai essere dimenticato.