Gli eroi in bianconero: Domenico PENZO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
18.10.2024 10:13 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Domenico PENZO
TuttoJuve.com

Lo «zingaro» del gol è arrivato a Torino con una valigia piena di sogni. – scrive Angelo Caroli su “Hurrà Juventus” del settembre 1983 – Il trentenne Domenico Penzo tocca la vetta di una carriera che si è ravvivata solo a Verona. Ma i dati anagrafici non gli impediscono di riempire i bagagli di ambizioni. «La strada è ancora lunga – dice spesso con un sorriso discreto – e l’approdo alla Juventus non è certo un punto di arrivo». Perché «zingaro» del gol? Perché in tredici anni di assistenza calcistica, Penzo ha visitato nove città (Varese, Borgosesia, Roma, Piacenza, Benevento, Bari, Monza, Brescia, Verona) servendo dieci club (Romulea compresa) e segnando un buon quantitativo di gol, pur denunciando le discontinuità che il ruolo di «bomber» comporta.
Domenico Penzo nasce a Chioggia il 17 ottobre del 1953. Suo padre fa il pescatore ed ha sette figli da sfamare. A sette anni, Domenico si trasferisce con la famiglia a Baranzate, nella terra dei mobili e a 14 anni, dopo aver lasciato gli studi, entra in una falegnameria di Paderno Dugnano. Infine fa il meccanico nell’officina di suo cognato.
È, questa, l’epoca dei primi veri calci a un pallone, nelle file del Borgosesia. Da quel giorno, siamo nel 1972, si dipana, contraddittoria e non sempre brillante, la carriera del «panzer» chioggiano. Nella Romulea, nel Bari, nel Benevento, nel Monza e nel Brescia, tiene fede alla sua fama di «puntero»; la grande occasione gli passa davanti agli occhi nel ‘74, quando la Roma lo porta all’Olimpico. Gioca 19 partite e segna la miseria di un gol.
Poi torna sull’altalena, come la maggior parte degli attaccanti troppo solidamente legati all’obbligo di segnare sempre. Finché balza agli onori, meno provvisori questa volta, delle prime pagine sportive. Con il Verona, protagonista l’anno scorso, gioca un campionato d’avanguardia. E mette alle spalle dei portieri avversari 15 gol. Un buon bottino. Solo Platini e Altobelli fanno meglio.
La Juventus, frattanto, perde Bettega, che si trasferisce in Canada. L’occhio di Trapattoni e di Boniperti cade sul veronese. Il quale non crede ai propri occhi quando legge la fantastica notizia sui giornali. Le prime dichiarazioni, dopo l’ufficializzazione del suo passaggio in bianconero, sono logicamente caute. Penzo è un po’ bloccato psicologicamente, poiché si rende conto dei rischi ai quali va incontro; deve capire se a Torino riuscirà ad avere le stesse condizioni esistenziali trovate a Verona. Passano i giorni, è tempo di ritiro a Villar Perosa. A Domenico Penzo, uomo serio e maturo, basta una settimana per capire tutto. «L’ambiente è molto buono – dice – e i compagni di squadra sono come tutti gli altri, anche se giocano nella Juve. Alla mia età è impossibile bruciarsi e la Juventus costituisce un trampolino di lancio per migliorare e per conquistare tappe prestigiose. Io so che la mia nuova società cercava un attaccante ed io sono qui per servirla. Non è facile il mestiere della punta; il ruolo ha subito metamorfosi sostanziali. Ma io cercherò di fare sempre il mio lavoro con il massimo impegno. Io e Rossi possiamo essere per la Juventus ciò che Graziani e Paolino erano per la Nazionale. Ci aiuteremo, sarà una specie di cooperativa per andare in gol».
Il gol è il tasto più battuto, come una nota piacevole. «Ne ho sempre fatti, diciamo una media di dieci all’anno; mi piacerebbe confermarmi su queste cifre. La concorrenza è però forte e comunque stimola parecchio. Sono stato considerato spesso un elemento di categoria, da serie B. Eppure le mie soddisfazioni me le sono tolte. Forse ho giocato male le mie carte quella volta nella Roma. Ma è acqua passata. A Verona ho segnato 14 gol in B e 15 in A. E la Juventus mi ha preso anche per questi dati».
E ora c’è il sogno di tutti, la Juventus assetata di rivincite. «In un gioco che si adatta alle mie caratteristiche posso fare tanti gol anch’io. Però capisco perfettamente che il mio compito è soprattutto quello di lavorare per la squadra e per Paolo Rossi. Non ho paure perché sono anche altruista, perciò Paolino stia tranquillo. E ora ho una grande ambizione, che urta società tanto prestigiosa può soddisfare; quella di vincere uno scudetto a 31 anni. Sarebbe stupendo».
Domenico Penzo è sposato ed ha tre figli. Sta cercando una casa definitiva vicino Milano, e ha in cantiere un progetto di lavoro che, a fine carriera, lo riporterà fra Verona e Brescia, dove ha conosciuto momenti di soddisfazione calcistica assoluta. Ora l’obiettivo di quest’uomo sobrio e puntiglioso è puntato però sul campionato, durante il quale vorrà confermare le ‘sue doti di uomo gol.

NICOLA CALZARETTA, DAL “GUERIN SPORTIVO” DELL’8-14 LUGLIO 2003
«Spente le luci del calcio, ne ho accese altre. Con serenità». L’autoritratto porta la firma di Domenico Penzo, detto Nico, ormai prossimo al traguardo delle cinquanta candeline, un passato da corsaro delle aree di rigore con partenza dalla Primavera del Varese agli albori degli anni ‘70 e arrivo a Trento nell’88. «Erano già passati diciotto mesi dall’addio al Napoli e un amico mi convinse ad accordarmi col Trento, in C1. Ma ero mentalmente scarico, tempo dieci partite e salutai la compagnia rinunciando a un anno di contratto. Per diversi anni ho cancellato il calcio, le ultime due stagioni in A con il Napoli avevano lasciato brutti segni. E ho piantato le tende a Verona, non volevo più sottoporre la famiglia a continui cambi di casa e di amicizie. E questo è anche uno dei motivi per cui non ho mai pensato di rimanere nell’ambiente».
C’è un nuovo interruttore da schiacciare, quello del lavoro. «È una luce che è sempre rimasta accesa. Dai quattordici ai diciotto anni ho fatto il tornitore, ho vissuto il calcio come un vero e proprio mestiere e infine perché, visto come ho chiuso con il pallone, ho avuto il tempo per guardarmi intorno. Nel periodo tra il Napoli e il Trento, ho collaborato con un amico in una concessionaria Mercedes. Poi ho partecipato a un corso Fideuram per promotori finanziari e quando ho smesso definitivamente di giocare ho iniziato a vendere fondi d’investimento in collaborazione con un altro ex, Claudio Bandoni (portiere di lungo corso negli anni ‘60, ndr). Ho capito presto, però, che non era la mia strada. Sono uno che ha sempre badato al sodo e vendere promesse di rendimenti non mi andava proprio giù. E poi mi sono sentito usato dalla struttura, il mio nome faceva comodo».
Scocca la nuova scintilla: il commercio. «Mi venne proposta la rappresentanza di importanti ditte di abbigliamento e attrezzature sportive, come Arena e Le Coq sportif. I programmi erano subito seri e precisi, con prospettive future interessanti. Ancora oggi è il mio mestiere, adesso il mio partner è la Quick Silver».
A illuminare la nuova strada i fari di una fiammante Mercedes 3000. «Non ti dico i commenti dei primi clienti che mi guardavano dall’alto in basso, come fossi capace solo di tirare calci a un pallone. Ma la cosa più brutta è che in quei momenti iniziali ti senti quasi in dovere di dare spiegazioni sul perché stai facendo quel mestiere. Comunque sono fasi che fanno parte della vita. Io ho avuto la fortuna di realizzare i miei desideri e sono una persona felice. Certo, bisogna essere coscienti che dopo tanti anni di protagonismo si deve ripartire dal basso. Non tutti gli ex calciatori riescono a capirlo. Tante volte penso al mio vecchio amico Agostino Di Bartolomei. Quando ricominci, anche se rimani nel calcio, devi fare la gavetta. Non si scappa. E devi tenere botta, perché, tanto nel calcio, quanto nel lavoro, regna l’ingratitudine. Io l’ho sperimentato molte volte, specie negli anni in maglietta e pantaloncini. Con l’aggravante che, quando guadagni bene, la tua vita viene rapportata al tuo stipendio: non puoi avere le palle girate perché sei un calciatore, non puoi avere un mal di denti perché “con tutto quel che guadagni” e cosi via».
È tosto Penzo, proprio come quando battagliava nelle aree di rigore alla ricerca del gol. «Ne ho incontrati tanti di stopper duri come il marmo: Cattaneo, Galdiolo, Brio. Ma chi mi faceva veramente soffrire era Fabrizio Berni. Mi pizzicava in continuazione ed io finivo la partita con i lividi».
Sovente, però, neri in volto erano gli avversari. «Ho segnato 120 reti in 400 partite. Ho giocato in tutte le categorie, dalla Serie D alla A. Con il Verona, la squadra del mio cuore, ho raggiunto livelli altissimi. Sono arrivato con le mie forze alla Juventus vincendo al primo colpo scudetto e Coppa delle Coppe. E pensare che qualcuno quando ero a Varese mi disse che con le gambe a “ics” che mi ritrovavo avrei fatto poca strada».
Incauta previsione. Le gambe storte di Nico Penzo già nel ‘74-75 vengono immortalate dalla Panini e per giunta pochi attimi prima dell’esordio in A con la maglia della Roma. «Novembre del ‘74, debutto proprio a Varese. Non puoi immaginare la gioia, solo l’anno prima giocavo in quarta serie con la Romulea».
La parentesi romana dura giusto una stagione e dà il via a un vero e proprio giro d’Italia. «Ho cambiato molte squadre. Non ho mai avuto peli sulla lingua e questo è un motivo. Poi per me era importante sentirmi protagonista. Stare dietro le quinte a guardare gli altri giocare non mi andava».
Principio ferreo, applicato senza condizioni anche alla Juventus, nell’83-84. «A un certo punto della stagione era certo l’arrivo di Giordano. Parlai con la società e decisi di andare via».
Peccato perché Nico non aveva fatto tanto rimpiangere Bettega. «Merito di campioni come Platini, Tardelli, Boniek e mister Trapattoni. Che quando si era in vantaggio, prima o poi, faceva uscire uno tra me e Rossi per mettere un mediano. Una volta impiegò tre quarti d’ora per dirmi che la domenica successiva, un delicato Roma-Juventus a poche giornate dalla fine, avrebbe giocato Prandelli. Incredibile. Comunque sia, salutai con affetto la Juve e andai al Napoli dove le cose andarono maluccio. Ricordo ancora una riunione con il presidente Ferlaino alla fine del girone d’andata. Io dissi che molti dei compagni pensavano più ai voti sui giornali che alla squadra. Marchesi mi fece i complimenti, ma io non giocai più».