Gli eroi in bianconero: Alessandro BIRINDELLI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
12.11.2024 10:12 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Alessandro BIRINDELLI
TuttoJuve.com

San Frediano a Settimo – scrive Nicola Calzaretta sul “Guerin Sportivo” del 2-8 agosto 2005 –, entroterra pisano, una bella casa a due piani costruita con i primi guadagni e con una buona dose di sacrifici alla fine degli anni ‘70. «Siamo in fase di trasloco. Mia figlia Tiziana tra poco si sposa, così gli ho liberato il piano superiore. Io ed Erminia, mia moglie, si sta di sotto». Paolo Birindelli ci mette subito al passo con quanto sta accadendo, mentre Erminia tiene a bada i due nipotini. Sono i figli di Alessandro, volante terzino dal destro al fulmicotone, da otto anni al servizio della Vecchia Signora. «Ricordo ancora quando Ale mi telefonò per darmi la notizia del trasferimento. Per prima cosa mi disse di mettermi seduta. Poi aggiunse: mi ha preso la Juventus. Aveva la voce rotta dall’emozione. Io mi misi a urlare. Ero felicissima, soprattutto per lui, bianconero fin dalla nascita».
Correva l’anno 1997. E, in verità, tante corse le aveva fatte anche la famiglia Birindelli per giungere a quell’importante traguardo. Paolo: «Ognuno di noi ha pedalato sodo, ma chi più di tutti ci ha buttato dentro l’anima è stato Alessandro che ci ha sempre creduto. Io e mia moglie lo abbiamo aiutato e assecondato, ma non ci abbiamo mai fatto la bocca al fatto che sarebbe diventato un calciatore professionista». «Tant’è vero – aggiunge Erminia – che quando in terza superiore decise di abbandonare la scuola, io ci rimasi male. Insomma, per me contava di più che lui prendesse un diploma. Ma onestamente vedevo che non ce la faceva proprio».
Alessandro era già nel vivaio dell’Empoli e tra allenamenti e partite il tempo scarseggiava. «Il nostro centro di gravità era Pisa», racconta Paolo: «Io operaio alla Saint Gobain, Erminia impiegata e Alessandro a scuola. Grazie all’aiuto di un amico che faceva il posteggiatore alla stazione di Pisa, avevamo architettato questo piano. Prima di entrare in fabbrica lasciavo all’amico la borsa del calcio per Alessandro. Verso mezzogiorno mia moglie, terminato il lavoro, ci metteva dentro un paio di panini. Così quando Ale usciva di scuola, lasciava lo zaino con i libri al solito posteggiatore che gli consegnava la borsa per gli allenamenti. Saliva sul treno per Empoli e mangiava qualcosa. Quando poi io alle quattro finivo il turno, mi riprendevo lo zaino di scuola e tornavo a casa». «Alessandro, però, lo si rivedeva tornare alle otto di sera» interviene Erminia «era cotto». Anche perché il buon Biro non è mai stato tipo da risparmiarsi.
Microfono ancora a Paolo. «Una volta lo accompagnai io a Empoli. Erano usciti ormai tutti dallo spogliatoio. Cominciai a preoccuparmi. Dopo un po’ lo vidi arrivare e gli chiesi il motivo del ritardo. “Babbo, mi rispose, manca il terzino sinistro domenica ed io ho fatto il ‘muro’ alla fine dell’allenamento. Se voglio giocare, devo migliorare con il sinistro”». «È sempre stato serio e puntuale», continua Paolo. «L’unico momento di sconforto lo viveva quando la stagione stava per finire perché aveva paura di non essere confermato. Ma quando poi, per le vacanze, gli davano la lettera con la dieta da seguire e gli allenamenti da fare, il mondo cambiava colore».
Si accenna alle vacanze ed Erminia chiede la parola: «D’estate siamo sempre andati in Sardegna. Io sono di Oristano. Per dirti di come Alessandro prendeva le cose seriamente, mentre noi andavamo al mare in bicicletta, lui veniva di corsa seguendo la tabella degli impegni». Paolo annuisce, mentre con la memoria torna ai primi passi di Alessandro: «Aveva otto anni quando entrò nel settore giovanile del San Frediano. Prima aveva fatto judo, ma anche in bicicletta andava forte, tant’è che qualche amico addentro al mondo del ciclismo lo avrebbe visto bene in sella. Ma a lui piaceva il pallone». Erminia sorride: «Gli piaceva anche andare con lo skateboard. Era spericolato, saltava da un marciapiede all’altro: la gente si fermava a guardarlo».
Un giorno capitò anche un osservatore del San Frediano di veder Biro correre, ma col pallone al piede. «Fu tutt’uno» ricorda Paolo «lo vide e lo portò in squadra. Per me andava bene, al punto che entrai anch’io nella società per dare una mano». E anche per Alessandro le cose si misero per il meglio, pure per la salute. «Aveva la pertosse» è la volta della mamma «non ci fu verso di fargliela passare. Lo portammo dappertutto. Fu il campo del San Frediano che gliela fece sparire».
Paolo non nasconde la felicità nel ripercorre quei primi passi. «Mi è sempre piaciuto il calcio. Avrei voluto giocare anch’io, ma erano altri tempi. In casa mia non volevano che sudassi. Allora, dopo aver fatto una partitina con gli amici, magari chiamavo mia sorella e mi facevo tirare un asciugamano per nascondere le tracce di sudore. Da ragazzo ho seguito il Pisa, specie quello di Gonfiantini e Piaceri, Serie A fine anni ‘60. E ora c’era Alessandro che andava via come un treno sulla fascia».
Fino a quando non arriva la fermata alla stazione di Empoli. «Aveva 11 anni e su di lui, in verità, c’erano già gli occhi della Fiorentina che, però, lo avrebbe prestato alla Marinese, una società satellite. Preferimmo l’Empoli che diede due milioni al San Frediano». «I primi tempi lo accompagnavo io con il treno» chiude Erminia. «Rimanevo lì per tutto il tempo dell’allenamento. Ma non stavo con le mani in mano. Facevo l’uncinetto. Alla fine son venuti fuori tre servizi di tovaglie e qualche metro di pizzo».

Nell’estate del ‘97, è Spalletti a segnalarlo a Marcello Lippi che lo porta alla Juventus. Prima di presentarsi a Torino, ottiene la promozione con l’Empoli in Serie A e vince i Giochi del Mediterraneo, con l’Under 23 allenata da Marco Tardelli. «Quando sono arrivato qui, non pensavo di rimanere così tanto. Per me, tifoso juventino fin da bambino, era la realizzazione di un sogno. All’inizio, la speranza era quella di fare bene e di conquistare un posto da titolare. Venivo dalla Serie B ed è stato un crescendo continuo».
Il primo campionato con la maglia bianconera è molto positivo; Biri, infatti, conquista immediatamente il posto da titolare e, con 47 presenze e 2 gol, partecipa attivamente alla conquista dello scudetto e della Supercoppa Italiana. «Ricorderò sempre il primo giorno di ritiro. Lippi disse a noi giovani che c’erano delle gerarchie da rispettare, ma che ci sarebbe stato spazio per tutti. Vinsi subito la Supercoppa Italiana contro il Vicenza ed esordii, segnando un gol, in Coppa dei Campioni, contro il Feyenoord. Ma la cosa più importante è che mi resi conto che c’era fiducia nei miei confronti. Tutti i miei compagni mi fecero sentire come se fossi stato con loro da sempre. Questa è stata, e sarà sempre, una prerogativa di questo spogliatoio».
Nella stagione ‘98-99 Alessandro, nonostante il deludente campionato della Juventus, totalizza 36 presenze e 2 reti, ottenendo la fiducia nel neo allenatore bianconero Ancelotti. Nelle stagioni successive, nonostante perda il posto da titolare, tutti gli allenatori juventini lo confermano e lo apprezzano, ammirandone la rapidità e la capacità di mantenere la forma anche giocando saltuariamente. Biri ottiene anche grandi soddisfazioni personali, come nella Coppa dei Campioni 2002-03; infatti, il suo gol contro il Deportivo La Coruña, realizzato con un destro sotto l’incrocio dei pali da una trentina di metri, è ricordato come uno dei più bei gol da fuori area della storia del calcio: «A livello personale, il ricordo più bello è stato il gol a La Coruña. Ma ce ne furono altri, come il cross per il gol di Zalayeta a Barcellona o la semifinale contro il Real Madrid, in un Delle Alpi ma così pieno di entusiasmo. Purtroppo, quell’annata si concluse con la delusione di Manchester, nonostante l’emozione di poter calciare e realizzare uno dei rigori. Fu una sensazione strana, quella che precedette il tiro, con pensieri che cambiarono mille volte prima di arrivare sul dischetto».
Logico che anche la Nazionale si interessi a lui; il 20 novembre 2002, contro la Turchia, esordisce nella squadra azzurra allenata da Trapattoni. Nell’estate del 2005, durante una partita amichevole contro il Benfica, subisce un duro intervento alla caviglia che gli fa perdere tutta la stagione. Tornato a disposizione all’inizio della stagione 2006-07, complice la retrocessione della squadra bianconera in Serie B, ottiene il ruolo di vice capitano e riconquista anche il posto da titolare sulla fascia destra, grazie anche ai soventi malanni di Zebina. L’infortunio e l’inesorabile passare del tempo, ne condizionano il rendimento. Biri, infatti, perde quella rapidità che ne aveva sempre contraddistinta la carriera e, spesso, è messo in difficoltà da avversari meno titolati. Nel campionato cadetto gioca, comunque, 37 partite, segnando la rete che permette alla Juventus di battere il Pescara, il 31 marzo 2007: «L’amarezza che fa più male è stata la retrocessione in B, perché ho visto svanire tutti i sacrifici di una stagione dominata! Noi sappiamo quello che abbiamo lottato per vincere quei due scudetti e lo sanno anche dall’altra parte, però loro devono dire l’opposto per giustificare il motivo per cui non vincevano mai; la ragione, in realtà è una sola, noi eravamo i più forti e lo sapevano benissimo, dimostrandolo battendoli a San Siro!».
Nel 2007-08 è riconfermato nella nuova squadra guidata da Claudio Ranieri e disputa solamente 11 gare tra campionato e Coppa Italia. Il 17 maggio 2008, dopo 306 presenze e 6 gol annuncia l’addio alla Juventus; nel suo palmarès figurano quattro scudetti, tre Supercoppa Italiana e un Intertoto: «Il segreto per rimanere tanti anni? La professionalità, la voglia di migliorarsi, credere in un progetto, essere in simbiosi con le idee della società. Tutte queste componenti portano a risultati come questi».
Il rammarico di non aver potuto scendere in campo per l’ultima partita in bianconero: «Ci sono rimasto male, ma è finita lì. Se avessi voluto far polemica, l’avrei fatta tre minuti dopo, quando le telecamere di SKY sono venute a intervistarmi. Sicuramente ci sono rimasto male, anche perché poi quando hanno chiesto a Ranieri il perché, la sua risposta è stata che in quel momento della gara aveva bisogno di un centrocampista. Cioè, l’ultima partita di campionato, capisci? La risposta dice tutto».
Una grave mancanza di rispetto nei confronti di una bandiera. «Quello che ho dato lo so bene e penso che la gente abbia apprezzato. Giocando bene o giocando male, ho sempre dato il massimo».

“TUTTOJUVE.COM” DEL 24 APRILE 2014
Alessandro Birindelli, ex giocatore della Juventus, club nel quale ha militato per ben undici anni, dal 1996 al 2007, si sofferma, intervistato da “Grossetosport.com”, sulla sua lunga e importante esperienza in maglia bianconera: «L’impatto con la Juve è stato pesante, ricco di attesa dal momento in cui ho avuto la notizia al momento effettivo di passare di là, fino a quando sono arrivato ed ho iniziato il lavoro con il gruppo. In quel periodo mi facevo molte domande, tipo: “Ma sarò all’altezza?” oppure “Con quel gruppo là come mi troverò?” Comunque era un gruppo che io vedevo in televisione e che ammiravo, essendo poi un tifoso juventino, chiaramente tutto questo mi portò un’emozione particolare. La stessa famiglia Agnelli, stentavo a crederci e facevo fatica a realizzare. Forse la serenità e la spensieratezza nel primo giorno in bianconero mi hanno portato a essere sereno e tranquillo. Quell’anno venivo da un campionato vinto con l’Empoli, poi sono partito con la Nazionale per disputare i Giochi del Mediterraneo, che abbiamo vinto, e il giorno dopo mi sono sposato. In pratica, quel periodo è stato così intenso che sono arrivato a Torino senza essermene reso conto. Sono arrivato lì, dove c’era gente che aveva già vinto la Coppa Campioni, gente affermata, però ripeto, mi hanno fatto sentire da subito uno di loro. Questo, poi, mi ha agevolato sia nell’inserimento che negli allenamenti, oltre che nei rapporti con mister Lippi, il quale mi ha dato l’opportunità di affacciarmi al grande calcio e ha avuto fiducia in me, che ho cercato di ripagare sempre con il massimo impegno. Noi avevamo veramente un grande gruppo, gli altri avevano forse rispetto a noi in quel periodo qualche cosa di più sull’aspetto degli individui, ma, dove loro si fermavano, noi riuscivamo a sopperire alle mancanze con uno spirito di gruppo, fatto di grande carattere e agonismo».
Birindelli ricorda anche la parentesi poco felice legata a Calciopoli: «Ti senti come derubato di qualcosa, perché come calciatore, di tutto quello che gira attorno a livello societario, non lo percepisci o lo percepisci molto poco. Almeno che tu non abbia un rapporto più stretto con i dirigenti o con l’allenatore. A quei livelli, il ruolo tra calciatore e dirigenti è molto separato, aldilà delle discussioni che riguardano la tua professione, ognuno svolgeva il suo lavoro. Visti tutti i sacrifici che fai per ottenere i risultati, rimane difficile capire tutto quello che è successo e quello che è avvenuto dopo. Rimani interdetto, quasi incredulo, ti viene da chiederti: “Ma dove ho vissuto io in questo periodo? Io pensavo che il calcio fosse un’altra cosa”. Non ti nascondo che questa storia mi ha lasciato l’amaro in bocca, ma io mi sento i cinque titoli perché sono sicuro di averli vinti sul campo. Dispiace per tutto quello che è venuto fuori, soprattutto perché viviamo in un periodo dove siamo usciti da Calciopoli, ma poi siamo arrivati a calciatori che vendevano le partite, gente che viveva fuori dai circuiti della regolarità e che andava a falsare le partite».
Ultimo pensiero, infine, rivolto alla fine della sua esperienza a Torino e all’anno vissuto in B: «Io penso di aver portato rispetto a questa società, soprattutto nella professionalità e l’impegno messo quotidianamente in ogni allenamento, in ogni partita. Nei confronti dei miei compagni, di tenere quel gruppo saldo, anche quando tanti campioni se ne andavano e la responsabilità, piano, piano, ricadeva su di te e altri. Mi è dispiaciuto la non chiarezza dei dirigenti del periodo. Devi sapere che ho rifiutato il rinnovo di contratto nell’anno di Serie B, dicendo che volevo giocare e dimostrare sul campo che meritavo la riconferma. Da quel momento non ne abbiamo più parlato, quindi a me rimane il rammarico della mancanza di chiarezza. Aldilà di questo episodio, resta comunque un grande amore per questa società e i rapporti attuali sono ottimi».