Gli eroi in bianconero: Salvatore SCHILLACI
Nasce a Palermo il primo dicembre del 1964 da una famiglia povera. Il calcio è la sua passione e dopo un campionato nella categoria Dilettanti, approda al Messina, dove gioca dal 1982 al 1989 segnando un’infinità di goal. La Juventus lo nota e lo acquista nel 1989 insieme con un altro attaccante semisconosciuto, Pierluigi Casiraghi, e lo fa esordire in Serie A il 27 agosto 1989. Da quel momento inizia la favola di Totò, che realizza il sogno da bambino, giocando nella squadra per la quale ha sempre fatto il tifo.
Il primo anno con Casiraghi e Rui Barros fa faville, vincendo una Coppa Uefa e una Coppa Italia, facendolo entrare nel cuore dei tifosi che lo accostano a un altro idolo, Pietro Anastasi, anch’esso siciliano, anch’esso esploso in provincia.
«Da quando ero ancora un moccioso, l’unica cosa che contava per me era segnare, a dispetto di tutti, compagni e avversari. Una voglia sfrenata, che non è mai finita. Ma io non potevo cambiare, perché se perdevo quella mia voglia matta di goal perdevo tutta la mia forza di calciatore. Da noi, per emergere, devi avere la fortuna che qualcuno venga a scovarti. Non ci sono scuole calcio, i club investono poco nel settore giovanile. Ho conosciuto tanti ragazzi che potenzialmente sarebbero stati dei talenti e che si sono scoraggiati. Io ce l'ho fatta, perché ho avuto il coraggio, magari l'incoscienza, di puntare tutto sul calcio: dopo un anno e mezzo che aggiustavo le gomme, e dopo, sfinito, mi andavo ad allenare, ho deciso che dovevo scegliere. E ho scelto il calcio, dandomi una scadenza. Se non avessi sfondato, mi sarei rimesso a bottega. Non sono uno sprovveduto. Gli anni che ho passato a Messina mi hanno insegnato qualcosa, anche perché ho avuto allenatori bravi a disciplinarmi. Ho sempre cercato di giocare per la squadra, almeno finché non vedo la porta. In quel momento scompare tutto. Siamo io, lei e il portiere. Se capisco che c'è il varco giusto, io ci provo. Un attaccante deve ragionare così e fidarsi del proprio istinto. Altrimenti quando segna?»
Attaccante tutto istinto vive il suo momento di maggior fortuna con l’esordio nella Nazionale di Vicini per i Mondiali casalinghi del 1990. Parte in panchina come riserva di Gianluca Vialli, ma il suo ingresso in campo è un’esplosione. Chi non ricorda i suoi occhi spiritati in quel Mondiale che ci vide al terzo posto? Uno sguardo che è entrato nella storia. La capocciata contro l’Austria, ai Mondiali italiani, gli ha stravolto, esaltato e distrutto la vita; lo stato di forma assolutamente pietoso di Vialli e Carnevale impone il suo impiego e Totò risponde. Trascinato-trascinatore da-di un’intera nazione, vive il Mondiale con un’aggressività, un’intensità e una pressione disumane: a Mondiale finito è completamente svuotato, prosciugato.
«Speravo di giocare qualche minuto, ero già al settimo cielo per la convocazione in Nazionale. Certo, in allenamento davo tutto me stesso per convincere l'allenatore, ma nemmeno un folle avrebbe mai potuto immaginare cosa mi stava per accadere. Ci sono periodi nella vita di un calciatore nei quali ti riesce tutto. Basta che respiri e la metti dentro. Per me questo stato di grazia è coinciso con quel Campionato del Mondo. Vuol dire che qualcuno, da lassù, ha deciso che Totò Schillaci dovesse diventare l'eroe di Italia '90. Peccato che poi si sia distratto durante la semifinale con l'Argentina. Una disdetta: abbiamo preso solo un goal in quell'edizione dei Mondiali, e quel goal ci ha condannati».
I fiumi di inchiostro, i chilometri di pellicola e gli ettari di immagini a lui dedicate lo innalzano a livelli di popolarità da psicosi; facile pronosticare che avrebbe pagato tutto quel clamore per il quale era inadeguato sotto vari punti di vista. Alle largamente preventivabili difficoltà della stagione successiva i media, la critica e i tifosi avversari e non (Totò era diventato un personaggio nazional popolare, come si diceva allora) gli presentano il conto, ovviamente troppo salato per lui.
Con la Juventus due lunghe stagioni d'ombra: undici reti in ventiquattro mesi, pochine. In crisi con la zona di Maifredi, in difficoltà persino negli schemi dell'italianista Trap. E le polemiche continue: le voci sul suo matrimonio in precario equilibrio; i cori razzisti in ogni stadio («Ed è triste che siano state le città del Sud, Bari e Napoli, ad avermi insultato di più»); il «Ti faccio sparare» rivolto al bolognese Poli («Era una frase detta così, nella foga del momento, ma non dovevo dirla: ne pagai a lungo le conseguenze»); il pugno contro Baggio («Nella Juventus e in Nazionale siamo diventati amici. Dividevamo la stessa camera, lui parlava poco, io niente. Eppure, nonostante questo, una volta facemmo a cazzotti. Anzi, fui io a rifilargli un pugno»), segni grandi e piccoli di un disagio, di una solitudine. Però, fiera. E tutto si può dire di Salvatore Schillaci fuorché dubitare della sua autenticità di animo persino esagerata. Per questo la fredda Torino non l'ha mai contestato né troppo fischiato, per questo le sue clamorose gaffe sintattiche suscitavano sorrisi ma non scherno.
«Sono rimasto un bravo ragazzo e lascio la Juventus senza polemiche. L'arrivo di Vialli mi ha messo fuori gioco, comunque auguro ai bianconeri ogni fortuna. Oramai la Juve è solo un ricordo: saluto i tifosi, gli ex compagni, Boniperti e Agnelli, tuttavia mi sento già interista purosangue. Ho ottenuto il massimo, sognavo la maglia neroazzurra e avrei accettato di restare fermo se non fossi riuscito a raggiungerla. I soldi non sono tutto. Tra l'altro vado a guadagnare meno. L'Inter mi piace, ha programmi importanti. Riparto da zero a ventisette anni e cerco una rivincita».
Gli anni seguenti occupano un posto marginale nelle cronache sportive e costituiscono argomento di dibattito per la stampa scandalistica e per il pattume televisivo. Nella sua vicenda umana e professionale c’è molto della società italiana che si apprestava a pagare il conto, salatissimo, dei fiammeggianti anni Ottanta. Un giocatore che ha dato tutto ed ha vinto poco, ma che ha saputo sfruttare la grande occasione che ha avuto.