Gli eroi in bianconero: Paolo MONTERO
Debutta a diciannove anni in serie A con il Peñarol, dopo aver praticato romantiche pedate con la classica Pelota de trapo, la palla di stracci, primo amore di ogni campione sudamericano: «Mio padre, Julio, è stato un asso del Nacional di Montevideo e della “Celeste”, la nazionale uruguagia. Nel mio destino c’era scritto che avrei ripercorso il cammino di papà; questione di cromosomi, di fatalità e di sangue. Al Peñarol sono arrivato che non avevo ancora diciotto anni; Menotti mi disse che sarei diventato come Passerella e toccai il cielo con un dito».
Rimane nella squadra che è stata del leggendario Pepe Schiaffino fino al 1991, totalizzando 34 presenze con la ciliegina di un goal. Lo scopre l’Atalanta. Arriva in Italia nell’estate del 1992. Marcello Lippi, allora allenatore dei nerazzurri, il 6 settembre lo fa esordire a Bergamo contro il Parma: l’Atalanta vince per 2-1 e Montero è fra i migliori in campo. La squadra, con l’inserimento del giovane uruguagio, diventa più solida e l’ottavo posto in classifica ha il sapore di un piccolo successo.
Ma a Bergamo devono innanzi tutto far quadrare i conti: i pochi acquisti e le molte cessioni provocano la caduta dell’Atalanta in Serie B. Siamo nel 1994-95. Nonostante l’immediata promozione ed un Montero ormai assurto a pilastro della difesa, i grandi club diffidano di questo giocatore che la critica ha definito grezzo, falloso e con un carattere impossibile, sempre nel mirino degli arbitri: «Sono fatto così, ma non dite che sono cattivo, questo lo possono dire solamente i miei genitori. Il fatto è che gioco sempre per vincere; negli spogliatoi stringo la mano agli avversari, certo, ma in campo nessuna concessione».
Non ha dubbi, invece, Lippi, allenatore della Juventus, che alla vigilia del campionato 1996-97, ne suggerisce l’acquisto. Lippi deve mettere a punto il reparto arretrato e la presenza di Montero è indispensabile. Se la Juventus vuole continuare a vincere deve assolutamente affidarsi a questo difensore tempestivo in fase di chiusura ed anche tecnicamente dotato: «Sono stato fortunato, perché ho sempre trovato gruppi eccezionali; ho sempre avuto a che fare con grandi rose e, soprattutto, con grandi compagni. Quando sono arrivato qui, nel 1996, ero fiducioso che questo legame sarebbe durato a lungo. Quando firmi per una squadra importante come la Juventus, è ovvio che speri di rimanere fino alla scadenza del contratto ed io ho anche avuto la fortuna di rinnovarlo. Per questo non posso che essere contento per la fiducia che tutti mi hanno sempre dato».
L’allenatore bianconero non si sbaglia; dopo il secondo posto del 1996, i bianconeri vincono subito lo scudetto e concedono il bis l’anno dopo: «Alla Juventus devo essere più pratico, evitare giocare inutili e cercare di ribaltare l’azione il più velocemente possibile. Alla Juventus il risultato arriva prima di ogni altra cosa; l’obiettivo è quello di vincere, sempre!»
Le vicende, purtroppo, portano Lippi lontano da Torino. Problemi di gruppo, campagne acquisti discutibili ed un po’ di sfortuna impediscono alla Juventus di vincere ancora. L’attacco produce pochi goal, almeno rispetto a Milan, Roma e Lazio, ma la difesa rimane la meno battuta. Nel 2000, anno del sorpasso laziale e del diluvio di Perugia, i bianconeri incassano appena 20 goal, 13 in meno dei Campioni d’Italia. Il segreto? La grinta di Montero, naturalmente. Un vero duro; Tudor ed Iuliano sono concorrenti temibili, ma Montero è sempre lì, a difendere il forte: «Ferrara è stato importantissimo; quando sono arrivato a Torino, era già un giocatore molto esperto e che aveva vinto tutto. Mi ha aiutato tanto. Con Mark Iuliano, invece, è un discorso a parte. Lui è un grandissimo difensore, ma il rapporto che c’è con lui va oltre tutto questo. Quando parlo di lui, non lo faccio mai come calciatore, ma come uomo; io Mark lo considero come un membro della mia famiglia».
Secondo posto nel 2001, poi tornano i tempi gloriosi. Tra un acciacco e l’altro, è ancora suo lo scudetto del 2002 e quello del 2003, e c’è lo zampino di Paolo anche nello scudetto numero 28, nel maggio 2005.
Il rimpianto per non aver mai vinto la Coppa dei Campioni: «Sarà stato il destino. Anche perché soprattutto nella finale contro il Borussia Dortmund dominammo quasi per tutta la gara. Anche la sconfitta con il Real avvenne solo per una serie di eventi sfortunati. Di certo nessuno ci ha mai messo sotto davvero. La finale contro il Milan invece merita un capitolo a parte. Come diciamo noi in Uruguay, la lotteria dei calci di rigori è una Roulette russa».
Ha sempre odiato giocare terzino sinistro e, quando era all’Atalanta, litigò proprio per questo con Lippi; quella sera, invece, non si rifiutò di giocare in quel ruolo: «Non mi sarei mai potuto tirare indietro in una gara di simile importanza. Giocare terzino sinistro non mi è mai piaciuto e quella sera, finché non si fece male Tudor, giocai un vero schifo sulla sinistra, ma dovevo dare tutto per provare a vincere quella Coppa. Non me lo sarei mai perdonato altrimenti. Pensa, per farti capire meglio, da bambino preferivo giocare in porta piuttosto che terzino sinistro. Penso tanto a quel rigore. In gare ufficiali non ne avevo mai tirati prima in vita mia. Ma a fine gara Mister Lippi viene da me e mi dice “Paolo te la senti?” Cosa avrei potuto rispondergli? Avrei fatto di tutto pur di vincere quella sera. Di tutto».
Il ricordo del 5 maggio 2002: «Quel pomeriggio fu fantastico. Da impazzire. Una gioia immensa. Non ci credevamo quasi più. Ma l’Inter di cosa si lamenta poi? Se era davvero la più forte andava a Roma e rifilava quattro pigne alla Lazio. Altro che scuse. Ed allora noi di Perugia cosa avremmo dovuto dire? 64 minuti dentro lo spogliatoio ad aspettare di rientrare in campo. 64! Li ho cronometrati. Una roba pazzesca. Però io ho il mio codice d’onore personale e per me conta solo e sempre il verdetto del campo. Per questo ho sempre rispettato le decisioni arbitrali. Durante la partita tutto è lecito pur di vincere».
Poi il divorzio, dopo 279 presenze e 7 reti, per andare a giocare in Argentina; ma quanti rimpianti lascia!
CARLO ANCELOTTI, DAL SUO LIBRO “PREFERISCO LA COPPA”
Una mattina alle quattro, all’aeroporto di Caselle. Tornavamo da Atene, avevamo appena fatto una figuraccia in Champions League contro il Panathinaikos ed abbiamo trovato ad aspettarci un gruppetto di ragazzi che non ci volevano esattamente rendere omaggio. Al passaggio di Zidane l’hanno spintonato ed è stata la loro condanna. Non a morte, ma quasi. Montero ha visto la scena da lontano, si è tolto gli occhiali con un’eleganza che pensavo non gli appartenesse e li ha messi in una custodia. Bel gesto, ma pessimo segnale, perché nel giro di pochi secondi si è messo a correre verso quei disgraziati e li ha riempiti di botte. Aiutato da Daniel Fonseca, un altro che non si faceva certo pregare. Paolo adorava Zizou, io adoravo anche Paolo, puro di cuore e di spirito. Un galeotto mancato, ma con un suo codice d’onore.
ENRICO VINCENTI, DA “HURRÀ JUVENTUS” DEL MARZO 2010
Pochi giocatori sono rimasti nel cuore dei tifosi juventini come Paolo Montero, Quel suo sguardo tutto sudamericano, un misto di rabbia e compassione, determinazione e fatalismo. Cattivo lo hanno dipinto in molti, ma per i tifosi era solo colui che buttava il cuore al di là dell’ostacolo, si immolava per la causa e dava tutto sé stesso. Quante volte avremmo voluto essere in campo e magari anche noi dare un calcetto a quel giocatore che faceva troppo il furbo. Bene Paolo era lì per noi. E quel “Vamos vamos” urlato a squarciagola sotto il tunnel prima di entrare in campo, che paura suscitava negli avversari e che grinta dava ai suoi. Fortissimo piazzato lì al centro della difesa, era spesso insuperabile. Non un Superman fisicamente, ma tosto, molto tosto, forse troppo per gli arbitri italiani: Montero era l’incarnazione della voglia di vincere. E questo un tifoso lo percepisce subito e non smette più di amarti.
Paolo Montero é stato, a tutti gli effetti, uno dei centrali più forti al mondo degli ultimi anni. Nazionale uruguaiano, ha giocato alla Juventus dal 1996 al 2005. Nove anni indimenticabili per lui ed i suoi tifosi. Il Peñarol, la squadra in cui hai incominciato a giocare ed in cui hai finito la tua carriera, é stata fondata da un gruppo di italiani emigrati in Uruguay e provenienti da un piccolo paese alle porte di Torino, Pinerolo. Un segno del destino: «Il Peñarol è stata una delle più famose e forti squadre del Sudamerica ed anche del Mondo: In passato, oltre che in Uruguay; ha vinto anche tanti trofei internazionali; come la Coppa Libertadores o l’Intercontinentale: Oltretutto, io sono sempre stato un sostenitore dei Peñarol: giocare con la maglia della squadra per cui hai fatto il tifo sin da bambino è una soddisfazione particolare».
Nel 1992 arrivi in Italia, nell’Atalanta. Perché hai scelto la squadra bergamasca? «Perché sono stati i primi a contattarmi. All’epoca giocavo nel Peñarol il cui allenatore era Menotti; che aveva ottimi rapporti con Franco Previtali, Direttore Sportivo dell’Atalanta. In quel periodo avevo anche disputato una tournée in Europa ed avevamo giocato un’amichevole proprio contro di loro. Mi avevano visto giocare già tre o quattro volte. Sono piaciuto e, per mia fortuna, hanno deciso di portarmi in Italia».
Felice di arrivare nel “Bel Paese”? «Ero felicissimo. All’epoca poter giocare nel campionato italiano era il sogno di qualsiasi giocatore, campioni e non, d’Europa e del Mondo. Soprattutto per noi sudamericani il vostro paese era la massima aspirazione, esattamente quello che succede adesso con la Spagna o l’Inghilterra: ora tutti vogliano giocare lì. Ma nel 1992 il centro del Mondo calcistico era l’Italia».
Quattro anni con buoni risultati quelli che hai vissuto a Bergamo: «Con l’Atalanta ho il rammarico di avere perso una finale di Coppa Italia. È stato un grande traguardo, ma abbiamo incontrato la Fiorentina di Batistuta e Rui Costa, troppo forti per noi. Comunque, sono stati anni molto positivi, soprattutto per il rapporto avuto con gli allenatori. Il primo è stato proprio Marcello Lippi, che avrei poi trovato alla Juventus. Uno dei più grandi. Ma mi sono trovato bene anche con Emiliano Mondonico, che mi ha difeso quando avevo avuto problemi con la tifoseria bergamasca. Il primo anno con Lippi è stato straordinario. Per un solo punto non siamo andati in Coppa Uefa. Lo ringrazierò sempre per quello che mi ha insegnato e perché mi ha voluto alla Juventus. Grazie a lui che ho vestito il bianconero».
Cosa voleva dire affrontare la Juventus con la maglia dell’Atalanta? «Era una partita che dava sempre una sensazione particolare. Ovviamente quando giochi in provincia partite come quelle le aspetti tutto l’anno. Fai di tutto per essere in campo e non vedi l’ora di giocarle: Questo vale anche quando affronti Milan o Inter».
E l’arrivo alla Juventus? «La cosa che più mi ha sorpreso al mio arrivo a Torino è stata l’organizzazione e la serietà della società. Sono diventato un vero e proprio tifoso della Juventus. I ricordi più belli sono comunque legati al gruppo, fantastico. Non mi interessa parlare dei fuoriclasse, parlo degli uomini. Sono stati in assoluto i nove anni più belli della mia carriera. La Juventus per me era diventata una vera e propria famiglia».
Una squadra ricordata sempre per la sua determinazione e lo spirito di gruppo: «Era proprio il segreto di quella Juventus: Se andiamo a vedere le altre squadre dell’epoca,ti accorgi di quanti giocatori forti avevano e compravano ogni estate. Ad inizio stagione partivano tutte come favorite, alle volte anche più di noi: il Milan, l’Inter, la Lazio, la Roma, la Fiorentina, il Parma. Ma alla fine vincevamo noi. Perché avevamo il gruppo più forte. Ancora oggi, tutte le volte che torno in Italia non perdo occasione per rivedere molti miei ex compagni e ricordiamo assieme tante cose, dalle stupende partite che ci hanno portato a vincere tanto agli episodi legati al nastro gruppo».
Sei diventato famoso in Italia anche perché considerato cattivo: «Io giocavo sempre al limite e se giochi cosi è normale essere ritenuto un giocatore falloso e subire molte ammonizioni od espulsioni. Questo non mi dava nessuna preoccupazione: Facevo quello che mi chiedeva il Mister, Ero un difensore e dovevo difendere. Mi interessava solo far vincere la mia squadra. Giocavo sempre al massimo; davo tutto. Se ti butti con gran foga su ogni pallone lo scontro fisico con l’avversario è assolutamente inevitabile: Il calcio è comunque uno sport fisico ed è normale che vi siano falli. lo comunque non ho mai fatto male a nessuno, anche se la cattiveria agonistica faceva parte del mio repertorio. Credo che si nasca con quell’indole. Non è certo una cosa che ti possono insegnare nelle scuole di calcio».
Non solo tu, ma tutta quel gruppo aveva una cattiveria agonistica fuori dal comune. Alcuni dicono che questo manca alla Juve di oggi: «Allora si vinceva già negli spogliatoi. Non posso parlare di questa Juventus perché non sono dentro. Nella mia si vinceva prima ancora di scendere in campo, perché c’era una convinzione nel gruppo che era incredibile. Ci credevamo sempre e comunque: i giocatori, il tecnico, i dirigenti, i massaggiatori. Tutti erano convinti di poter vincere; determinati a farlo e questo gli avversari lo percepivano già nel tunnel. Entravamo in campo con la convinzione che se subivamo due goal non era un problema. Si rimontava e si vinceva. Questa convinzione non puoi averla se dietro non c’è una grande gruppo. E non mi stuferò mai di dirlo: il nostro era straordinario».
Cosa ti manca del calcio giocato? «Da quando ho smesso, sono diventato procuratore. Il calcio grazie a Dio quindi non mi manca molto perché sono ancora dentro l’ambiente. Quello che m manca é il gruppo, la vita dello spogliatoio. Era la cosa che più amavo del mio lavoro e quella che adesso rimpiango di più».
E noi rimpiangiamo il fatto che Montero non giochi più. Nel caso di molti altri si è soliti dire: dispiace non vederlo più giocare, anche con altre squadre. Nel caso di Montero dispiace solo non vederlo con la maglia della Juventus. Averlo come avversario non é mai piaciuto a nessuno.
“LA GAZZETTA DELLO SPORT” DEL MARZO 2011
Paolo Montero è un idolo dei tifosi juventini. Leader in campo, muro difensivo insuperabile, ha sempre messo in campo anima e cuore. L'ex difensore bianconero ricorda con nostalgia il suo periodo bianconero svelando qualche aneddoto: «Ho amato Torino, dove ho vissuto mille aneddoti ed ho ancora oggi tanti amici. Ricordo soprattutto le serate ai Murazzi, il mio posto preferito, perché potevo bermi una birra tranquillamente e farmi due chiacchiere come una persona qualunque. Un giorno portai anche Zidane e tutti gli immigrati nordafricani del posto iniziarono a tifare Juve. Ogni volta che si vinceva, partiva subito la macchina per Milano. Di feste ne ho vissute parecchie, però oggi sono sposato e non si possono raccontare. Quante serate con il mio amico Mark (Iuliano, ndr). Era un vero conquistatore, ed io gli facevo da spalla. Quando andavamo a ballare ed incontravamo tifosi della Fiorentina o del Torino era facile che succedesse qualcosa. Una volta a Viareggio è finita a cazzotti e ci hanno sbattuto fuori dalla discoteca, ma per fortuna ho convinto Mark a lasciar perdere perché erano una decina e ci avrebbero ammazzato di botte. Se in campo succedeva qualcosa, spesso negli spogliatoi andavamo a cercare rissa con gli avversari, soprattutto quando giocavamo con l’Inter. Una volta ho litigato con Toldo, ma era così alto che quando gli ho tirato un pugno non sono riuscito a prenderlo. Poi i compagni ci hanno fermato subito».
Montero rivela anche un curioso episodio sotto l'era Ancelotti: «Una volta durante il precampionato Ancelotti ci lasciò una serata libera. Io esagerai ed il giorno successivo mi presentai agli allenamenti in condizioni pietose, tanto che la società disse ai giornalisti che ero influenzato. Mi volevano cacciare, ma per fortuna il mister insistette perché restassi e mi salvò».
Ora idolo indiscusso dei tifosi, ma una volta «mi volevano picchiare dopo aver scoperto che uscivo con due tifosi del Torino. Mi sono venuti a prendere al Comunale, ma abbiamo parlato e ci siamo chiariti in fretta. Gli ho spiegato che le amicizie me le scelgo da solo».
Capitolo allenatori: «Sono stato fortunato, ho conosciuto grandi uomini. Ho litigato con tutti, ma ancora oggi ci sentiamo, segno che ci sono sempre stati stima e rispetto reciproci. Il più importante è stato Ancelotti, che quando lasciò la Juve mi confidò di volermi bene come ad un fratello».