Gli eroi in bianconero: Flavio EMOLI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
23.08.2024 10:14 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Flavio EMOLI
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«Giocare nella Juventus è stata un’esperienza che ha indelebilmente marchiato la mia vita. Forse sbaglierò, ma il fatto di essere stato uno della grande Juventus mi fa sentire, ancora adesso, importante, quasi di un livello superiore. Anche se so che i meriti di tutto ciò sono in minima parte miei».
Laterale di carattere indomabile e di ottima tecnica, è il comprimario ideale dell’argentino Sivori per il quale si sacrifica in rincorse asfissianti. «Il ruolo assegnatomi prevedeva che giostrassi da mediano difensivo, mentre Colombo si muoveva un po’ più avanti. Ma il buffo era che, mentre Boniperti mi spronava sempre ad avanzare, Ferrario cercava in tutti i modi di frenarmi. Insomma, ero il classico uomo di spinta, il maratoneta di centrocampo in genere ben preparato fisicamente, tanto che alla fine degli allenamenti rimanevo regolarmente in campo per effettuare allunghi e cross continui a favore di Charles, che voleva perfezionare il colpo di testa. Passavo, poi, per un duro e cattivo, mentre non sono mai stato squalificato per gioco scorretto; se ero aggressivo lo ero all’inglese ed entravo sull’uomo solo quando c’era il pallone di mezzo».
Era soprannominato Cuore Matto, come il ciclista Bitossi e il povero Renato Curi. «Avevo un’anomalia congenita al cuore che venne fuori, per la prima volta, quando avevo 23 anni, a seguito di un elettrocardiogramma. Il responso di quell’esame lasciava poche speranze, tant’è che, tre giorni dopo, il dottor Umberto venne al campo e mi disse che, forse, avrei dovuto smettere di giocare. Fu un colpo tremendo. I medici, che all’inizio avevano erroneamente individuato gli esiti di un infarto, in seguito si resero conto che, quell’anomalia, spariva quando il cuore era sotto sforzo, ma la nomea mi è rimasta per tutta la carriera».
Scolpito nella roccia, caparbio e generosissimo, Emoli, elargisce tesori di energie su ogni campo d’Italia. Diventa così un giocatore molto importante per la compagine juventina, tanto da diventarne il capitano.
«Scendevamo sempre in campo convinti dei nostri mezzi, anche nelle giornate storte; in fondo, l’accoppiata Charles-Sivori garantiva almeno 50 reti a stagione, quindi potevamo dormire ovunque sonni tranquilli. Certo, non ci fossero stati i famosi dissapori di spogliatoio tra Boniperti e Sivori avremmo, forse, potuto vincere ancora di più, visto che eravamo i più forti in assoluto. Era davvero un altro calcio; pensavamo soltanto a segnare tante reti, quasi un centinaio a stagione e non ci preoccupavamo se, magari, ne subivamo due o tre per partita. Questa mentalità ci rendeva più simili a giocatori della domenica che a fior di professionisti. Eppure, quando scendevamo in campo noi, lo spettacolo era sempre assicurato».
Nei quadri bianconeri si ferma per otto stagioni: mette insieme 240 partite e 9 goal e lega il suo nome a tre scudetti (1958, 1960 e 1961) e a due Coppe Italia (1959 e 1960). Lascia la Juventus e si accasa al Napoli nell’estate del 1963, ottenendo la promozione in serie A della squadra partenopea, per poi terminare la propria carriera al Genoa, nel campionato 1967-68.
Emoli indossa in un paio di occasioni la maglia della Nazionale maggiore, con la quale esordisce il 23 marzo 1958, nella partita contro l’Austria. Completano il suo ruolino azzurro due presenze con la squadra B e una con la Giovanile.

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Nato a Torino il 28 agosto 1934 e cresciuto nelle file dei ragazzi bianconeri, il tarchiato Flavio si fece ben presto notare come uno dei migliori prodotti dell’allevamento juventino.
La parola allevamento era ormai da tempo entrata nel vocabolario corrente delle società di calcio, sia sotto il profilo amministrativo che tecnico. Esso si può sostanzialmente definire così: un sistema organizzato e razionale per avviare i giovani alla, pratica del gioco, secondo le esigenze dei tempi, al fine di creare futuri campioni del domani.
Erano, quelli di Emoli, i tempi in cui, con Sandro Cocito dirigente responsabile e con Locatelli - Bertolini coppia di tecnici ineguagliabili, la Juventus aveva visto prosperare il proprio vivaio in modo favoloso. Basti pensare che nella formazione presentata al Torneo di Viareggio del 1954, giocavano quattro giocatori che, oltre a fare poi parte della prima squadra juventina, indossarono anche la maglia azzurra nella nazionale. Si trattava di Garzena, Emoli, Colombo e Vavassori; e di un periodo vicinissimo furono protagonisti anche Robotti, Mattrel e Stacchini.
Il nostro Emoli giocava mediano destro. Era un tipico mediano sistemista. E tutti sanno che il mutamento tattico da metodo a sistema aveva cambiato molte cose nel gioco.
Nel metodo il posto del mediano laterale era spesso il “refugium” degli incompleti; ma la qualifica di mediano era nobilitata dal centro, vero cervello motore della squadra. La marcatura del mediano metodista era quasi “ad personam” e questo giocatore si rendeva protagonista di arcigni duelli con l’ala da marcare.
A pensarci bene, tuttavia, dire che il posto di mediano laterale fosse il “refugium” era profondamente ingiusto. Il mediano doveva accoppiare le doti dell’incontrista, o dell’interdittore a quelle di battitore costruttivo; il mediano che rimandava a capocchia scadeva tra i paesani, ma il suo apporto al gioco rimaneva comunque sempre importante. Se l’uomo aveva classe diventava protagonista.
Il mediano sistemista propone quasi immediatamente la figura moderna del centrocampista. La sua posizione lo avvicina a quella del giocatore di scacchi, sempre in grado di misurare e vagliare con immediata prontezza le mosse proprie e quelle dell’avversario.
In molte squadre, il laterale sistemista può addirittura essere il regista. In alcune stagioni lo fu anche Emoli, pur se poi dovette cedere la bacchetta al biondo Boniperti e sacrificarsi al servizio del capitano.
La carriera di Flavio Emoli, all’inizio, fu un po’ difficile. Giocava in una Juventus avarissima di autentici assi: Boniperti e Praest, ormai avviato al viale del tramonto. I suoi compagni erano atleti coraggiosi e tenaci, dal gioco maschio e spericolato, come Bruno Garzena, il più dotato tecnicamente, Memo Oppezzo e Cesare Nay. Era una squadra dove tutti erano tenuti a faticare oltre misura, una squadra il cui gioco stentava sempre a decollare.
In quella stagione 1955-56 (la prima di Emoli come titolare) dovevano passare ben otto domeniche prima di gustare la gioia della prima vittoria.
Si era iniziato con un pareggio interno, avendo la Spal come avversario; in quella gara (conclusa sul 2-2) Emoli non aveva giocato. L’allenatore Puppo lo aveva fatto esordire nella seconda partita, la trasferta a Trieste, come mediano sinistro.
Poi c’era stata la dura sconfitta esterna ad opera di una Fiorentina che si sarebbe laureata Campione d’Italia. Quarta partita, il derby: finì a reti inviolate ed Emoli fu utilizzato come mezzala sinistra, ruolo nel quale giocò anche a Marassi contro la Sampdoria (sconfitta per 2-0). Ancora due pareggi con il Novara e a Roma, poi, finalmente, la prima vittoria di quel triste campionato, (senza Emoli in campo) a Torino contro l’Atalanta: 2-1. E la domenica successiva, il bis contro il Genoa, con rete vincente di Boniperti e superlativa prestazione di Emoli come interno sinistro.
Solo qualche tempo dopo l’amico Flavio tornò a fare il mediano e a sfaticare avanti e indietro per il campo. Il suo, tuttavia, era sempre un lavoro ordinato e preciso, fatto in funzione delle esigenze della squadra. Non è che si avventurasse in avanti solo per sentire il brusio della platea amica o per il gusto di farsi guardare, di imporre ostentatamente il proprio gioco ai compagni. Emoli sapeva conquistare la palla con forza e aveva l’intelligenza di batterla in avanti, con immediatezza, al compagno smarcato. Raramente i suoi disimpegni hanno messo in difficoltà la sua difesa, proprio perché le avanzate venivano fatte a ragion veduta, senza eccessivi sbilanciamenti in avanti, senza rompere le equidistanze tra attacco e difesa.
Emoli ebbe la capacità di acquistare una certa autorità nel proprio ruolo e di mantenere un alto rendimento per parecchie stagioni consecutive.
Ebbe, naturalmente, il premio per le sue doti, due maglie azzurre in partite importanti. La prima fu giocata a Vienna il 23 marzo del 1958 contro la temibile Austria di quei tempi: Flavio ebbe come compagni di avventura i bianconeri Corradi, Garzena, Ferrario e Boniperti. Gli austriaci riuscirono a superare gli azzurri con il punteggio di 3-2, dopo essersi trovati in svantaggio per 2-1.
Il 29 settembre del 1959, a Firenze, seconda gara internazionale per il medesimo juventino: un pareggio (1-1) con l’Ungheria forte di Alberi e Tichy, di Sandor e Fenyvesi. Si videro in campo, in quell’occasione, ben sette juventini: Castano, Sarti, Emoli, Cervato, Colombo, Boniperti e Stacchini. Una gagliarda prestazione di Emoli, citato da tutta la stampa italiana come centrocampista completo.
Fu quella la più grande soddisfazione per il giocatore bianconero, oltre a quella provata con la conquista di tre scudetti di Campione d’Italia.
Sul finire della carriera Flavio Emoli diede anche prova della duttilità d’impiego, operando come terzino d’ala. Fu il tecnico Paulo Amaral a vedere questa trasformazione da mediano a terzino. Ed Emoli si comportò come un Fregoli del calcio.
Esuberante, propenso a gettarsi nella mischia, là dove il gioco assurge a toni agonistici elevati, dote primaria di un combattente di razza, Emoli, pur cambiando ruolo, è riuscito a plasmare la sua condotta di gara, a sfrondare dal suo repertorio i rami secchi, a comprimere, cioè, quell’azione talvolta convulsa, seppur redditizia, che lo aveva inchiodato su un livello tecnico-tattico troppo limitato per le sue effettive possibilità.
Con Emoli terzino, la difesa della Juventus inquadrò a un certo punto in modo organico il suo gioco e il suo rendimento. Merito della mente Amaral, ma soprattutto del braccio Emoli, che anche in quell’occasione aveva fatto della sua professione una bandiera.

ANDREA NOCINI, DA PIANETA-CALCIO.IT DEL 14 FEBBRAIO 2013
Fu quello che suggerì a Bruno Pesaola il trasferimento all’ombra del Vesuvio di Omar Sivori, il giocatore più talentuoso e incorreggibile della Juve, in rotta di collisione con il trainer bianconero Heriberto Herrera, il paladino del “movimiento”, del calcio atletico e molto dinamico, e poco amante della fantasia e del calcio-poesia. Con il Napoli arrivarono i galloni di capitano in una squadra che contemplava anche la forte presenza di Josè Altafini e quella molto significativa di Juliano. Un marcantonio che in campo dava tutto, anche quattro denti a causa di una gomitata poco ortodossa di Prenna della Spal, e per tutti i novanta minuti in campo con una clavicola spezzata (in casa della Pro Patria, con il Napoli che ritornava in Serie A). Senta, Flavio, quand’è che ha provato la più grande emozione da calciatore? «È stato in occasione dell’esordio in Nazionale, a Vienna, nel marzo del 1958. Nella gara perduta per 3-2 contro l’Austria era presente sugli spalti anche il presidente della Juventus, il dottor Umberto Agnelli, felicissimo perché c’erano tanti suoi giocatori che indossavano l’azzurro. E poi, il primo scudetto vinto con la Juventus, quello della stella».
– Ha un ricordo personale di Umberto Agnelli? «Era del 1934 come me, ma io ero più vecchio di sei mesi. Una volta, dopo avergli chiesto un aumento di stipendio di un milione in più, ricordandogli che avevo giocato bene quasi sempre, giocato in Nazionale, vinto la Coppa Italia, lui mi rispose: “Per carità, possiamo stare qua tutto il giorno, ma più di 500.000 lire più dell’anno scorso non ti posso dare!” Magari poi, succedeva che se a fine anno ripetevi un’altra bella stagione, ti regalava un milione. Il dottor Umberto era giovane, simpatico, un bel presidente. In occasione del Natale del 1978 mi aveva inviato la fotografia di Andrea, che era nato da poco, assieme agli auguri di Natale. Ebbene, quella lettera e la foto ce l’ho ancora appesa nel mio ufficio».
– Si ricorda un goal importante con la Juventus? «A ventitré anni mi avevano scoperto un’anomalia congenita al cuore e mi avevano fermato e ricoverato in clinica per tre settimane, in quanto mi riscontrarono una cicatrice, segno di un sospetto infarto. Ricordo che il dottor Umberto fece salire da Roma uno specialista cardiologo, un luminare, il professor Vis. Mi fecero sostenere una prova da sforzo e il medico mi disse che potevo riprendere a giocare a pallone, perché non c’era nulla di grave. La domenica ho giocato e ho fatto il goal alla Lazio del grande portiere Lovati».
– Lei ha vissuto anche quattro anni all’ombra del Vesuvio. Che ricordi conserva? «Il presidente era Achille Lauro, il famoso armatore, e Roberto Fiore. Ricordo che quando salimmo dalla Serie B alla Serie A l’allenatore era Bruno Pesaola, il Petisso. C’erano Altafini, Sivori, Canè e Juliano, tutti grandi giocatori».
– Il più forte di tutti? «Il grande Omar: per me, è stato uno dei più grandi della storia del calcio».
– Era più matto o più bravo? «Era più bravo, più bravo. Eravamo molto amici, era fantastico».
– Non ha mai osato fargli un tunnel durante un allenamento? «Quando giocavo contro di lui, facevo a finta di aprire le gambe, poi, all’ultimo secondo le chiudevo ed evitavo a lui di fare il tunnel a me. Lui ci tentava sempre, ma con me non ci riusciva. Era l’amico migliore che avevo: prima di morire è venuto a trovarmi, qui a Genova, in ufficio da me, e mi ha confidato che aveva un tumore al pancreas. Eravamo molto amici perché abbiamo giocato assieme anche a Napoli oltre che a Torino e mia moglie è stata madrina di cresima della figlia».
– Ha mai pianto di dolore fuori dal calcio? «Ho sempre avuto un bel rapporto con il dottor Umberto Agnelli e quando è morto mi è dispiaciuto tantissimo. Ci sono rimasto proprio male: è stato il dolore più grande quello. Sì, anche quando è morto Sivori, ma, forse mi aveva un po’ preparato, mentre con il mio presidente avevo un rapporto fraterno!»
– I suoi genitori lasciarono Ancona per lavorare alla Fiat di Torino? «No, no: mio padre venne a Torino da calzolaio, faceva scarpe. Poi, con i soldi che ho guadagnato nel calcio siamo riusciti ad aprire un negozio di calzature e poi abbiamo proseguito a fare i commercianti. Eravamo in sei figli ed eravamo una bella famigliola».
– Quando è che ha cominciato a tirare i primi calci al pallone? «A Torino, nella Juventus, a quattordici anni, e ho fatto tutta la trafila dei ragazzi, le Riserve, la prima squadra, ma, prima mi hanno mandato a farmi le ossa nel Genoa, nel 1954. E nella Juve ho disputato otto campionati in bianconero, quattro al Napoli e ho concluso con i “Grifoni”».
– Era superstizioso? «No, no, magari si giocava con le stesse scarpe e gli stessi calzettoni. Ma, a Napoli era facile, eh, diventare superstizioso».
– I suoi mister: un ricordo? «Heriberto Herrera non l’ho conosciuto: infatti, quando arrivò, Sivori chiese di trasferirsi al Napoli, ed io caldeggiai il passaggio al Napoli al presidente Lauro e alla società. Omar non ne poteva più di un trainer con cui non riusciva a legare proprio. Il più bravo era Gunnar Gren: in coppia con Parola era davvero forte, un signore. Il Petisso era molto bravo, un entusiasta del calcio, un grande appassionato. Durante gli allenamenti, chiedeva che io collaborassi per la parte riguardante la preparazione fisico-atletica. Fumava, beveva come un turco, e giocava a carte. E prima della partita ci faceva giocare alla roulette francese. Ci faceva sdraiare per terra dentro lo spogliatoio e ci invitava a giocare con lui».
– Si ricorda un goal con la maglia del Napoli? «No, io ricordo che con il Napoli, a Busto Arsizio mi sono rotto la clavicola e ho continuato a giocare, a stare in campo fino alla fine. Ancora adesso mi sembra di sentire i due ossicini scomposti che fanno cic e ciac. A Napoli ricordo che in caso di vittoria ci riconoscevano dei bei premi, nulla più».
– Era come Beckenbauer, il capitano della Germania, eliminata nei Mondiali 1970 del Messico, che continuò a giocare con un braccio rotto grazie ad un’abbondante fasciatura all’arto. «Esatto, esatto. Con la Juventus ricordo che a Ferrara ricevetti una gomitata da Prenna, che mi buttò giù quattro denti. Ero saltato all’indietro a braccia aperte, lui mi ha colpito nei denti e sono precipitato svenuto a terra. Ho quasi subito ripreso i sensi e ho continuato a giocare. Abbiamo vinto, eravamo nel 1958. Il dottor Umberto Agnelli mi fece come regalo una radio, era un gran regalo a quei tempi, dicendomi: “Sei capace di giocare anche con quattro denti in gola, bravo!”».
– Come mai ha giocato così poco in Nazionale? «Perché mi sono infortunato parecchie volte: negli otto anni di Juve ho perduto venticinque partite per traumi, strappi, stiramenti e noie varie. Sì, è vero, io avevo una muscolatura forte, ma, avevo bisogno di allenamenti meno blandi di quelli che si eseguivano allora. Oggi, io andrei sicuramente meglio con questo tipo di preparazione atletica».
– L’avversario più forte che ha dovuto marcare? «Nel 1961 ho giocato contro Pelé; era un fenomeno. Per me, è stato il più grande dei grandi! Atleticamente era armonioso, tecnicamente era completo, di testa era fortissimo. Avevo ventuno anni, e Sivori aveva scommesso con il dottor Umberto Agnelli che il presidente mi avrebbe dato 100.000 lire se non l’avessi fatto segnare. “Se battiamo il Santos – aveva promesso il presidente – te ne do 50.000. Porca miseria: ha segnato a tre minuti alla fine e abbiamo perso».
– E come si poteva fermare un asso di quel genere? «Gli ho dato un sacco di botte, lo tenevo, lo strattonavo con le unghie e con i denti. E lui credo che si sia sempre ricordato della mia marcatura, perché l’anno dopo, quando è tornato a fare un altro torneo, alla domanda: “Cosa ricorda di più dell’Italia”, lui rispose: “L’anno scorso, mi ricordo che c’era un mediano della Juventus che mi ha dato tante botte, mi ha pestato come un tamburo”».
– Ha giocato contro un altro grande della storia del calcio, Alfredo Di Stefano del Real Madrid? «No, perché quella volta mi ero fatto male e il dottor Umberto Agnelli mi aveva portato in Francia a sottopormi alle cure del noto massaggiatore Wanono. Indicato da Helenio Herrera, un altro “mago” come il mister della Grande Inter. Contro la Fiorentina, riportai una distorsione al ginocchio, e dopo avermi portato con il suo aereo in Francia dallo specialista, feci in tempo a far parte della spedizione bianconera che sconfisse il Real per 1-0 a Madrid con un goal di Sivori. Era il 1958 e Di Stefano era anziano».
– Il più forte giocatore italiano? «Io marcavo tutti i migliori numeri dieci che incontravo, e tra questi Angelillo, Suárez, Rivera, Lindeskog, Bulgarelli. Ma, il più forte era Rivera. Io, in genere, marcavo la mezzala sinistra. Giocavo come mediano difensivo, in coppia con Colombo, lui a sinistra e più in attacco, come si chiamava allora mediano laterale».
– Chi l’ha fatto impazzire? «Abbadì, una mezzala sinistra, notevole la sua progressione, velocissimo. Era un uruguaiano, che aveva giocato nel Genoa, nel Lecco e nel Peñarol: un giocatore di alto livello».
– Tra gli italiani? «Bulgarelli: aveva una facilità di gioco incredibile, copriva molto bene la palla, era molto difficile da marcare. Faceva goal con facilità, tecnicamente era molto bravo, molto attrezzato».