Gli eroi in bianconero: Fabio CANNAVARO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
18.09.2024 10:11 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Fabio CANNAVARO
TuttoJuve.com

«Amici, scusate il ritardo? Sì, mi sembra uno slogan azzeccatissimo per riassumere il mio approdo alla Juventus – confessa a Fabio Ellena su “Hurrà Juventus” dell’ottobre 2004 – tante volte in passato si era parlato di un mio trasferimento qui in bianconero, ma poi non si è mai concluso niente. Ora invece è giunto il momento, arrivo in squadra in cui conosco praticamente tutti e in cui quindi mi sentirò come a casa mia». Ebbene sì, questa volta la storia ha avuto il suo lieto fine. Al termine di un’altra intensissima campagna trasferimenti, il matrimonio tra la Juventus e Cannavaro si è finalmente consumato. Tante estati passate a leggere di avvicinamenti, ammiccamenti, contatti. Finiti, per un motivo o per l’altro, senza la fatidica firma. In sostanza, quindi, solo molte stagioni vissute da avversari diretti, sempre in lotta – Fabio e le sue formazioni – per traguardi di prestigio.
Prima il Napoli, squadra della sua città e nella quale è nato calcisticamente, dove ammira da vicino le giocate di un certo Diego Armando Maradona e studia direttamente dal maestro Ciro Ferrara. Poi il Parma, società che per tutti gli anni ‘90 tenta l’assalto al ghota del pallone di casa nostra e trova proprio nei bianconeri i rivali guastafeste. Fino ad arrivare all’Inter, ultima tappa di avvicinamento – anche geografica – verso Torino.
Esperienze importanti, decisive nel trasformarlo da giovane talento di successo in campione affermato. Nonché punto fermo della Nazionale italiana, di cui tutt’oggi è capitano.
A trentuno anni, compiuti proprio all’indomani della prima uscita ufficiale in bianconero (quella vincente di Brescia), Fabio Cannavaro si getta quindi con entusiasmo nella nuova avventura. Accolto a braccia aperte da tanti compagni, anzi meglio dire amici, conosciuti in questo decennio ad alti livelli. Persone importanti per la sua crescita (anche fuori dal campo), che hanno avuto un ruolo importante anche nel suo trasferimento alla Juventus.
«Quando arrivi in un ambiente che conosci è tutto più semplice. Intanto per l’inserimento nel gruppo, ma anche per tanti altri aspetti che magari sembrano più banali, come ad esempio cercare casa o andare a cena fuori la sera. Avere a disposizione tanti compagni già conosciuti in passato è sicuramente importante. Certamente la presenza di amici come Ciro, Gigi e Lilian ha influito, loro spesso mi hanno parlato dell’aria che si respirava a Torino e in particolare del fatto che quando ci si approda alla Juventus si deve avere un solo pensiero, cioè quello di giocare a calcio».
– Con Buffon e Thuram si forma di nuovo il proverbiale trio.
«Abbiamo avuto delle belle esperienze e a Parma, a livello calcistico, siamo in pratica cresciuti insieme. Avevamo degli obiettivi comuni, ci vedevamo tutti e tre a raggiungere traguardi importanti. Qualche cosa abbiamo vinto, ma forse è stato poco rispetto al valore di quella squadra. Abbiamo quest’altra opportunità, arrivata forse un po’ tardi, però adesso tutti abbiamo l’esperienza giusta per dare quel qualcosa in più».
– Ritrovi anche un certo Ciro Ferrara...
«È sempre stato un modello da guardare quando io giocavo nelle giovanili del Napoli e andavo a fare il raccattapalle al San Paolo per le partite della prima squadra. Ammiravo da vicino le giocate di Maradona, ma giustamente Ciro mi ha sempre detto: Diego la palla fuori non la mandava mai, quindi al massimo raccattavi i palloni che tiravo fuori io! Così in pratica, durante quel fantastico periodo, facevo il raccattapalle a Ferrara. Scherzi a parte, lui è sempre stato un punto di riferimento, per come si è gestito a Napoli e poi qui alla Juve, è un esempio per tutti i giovani calciatori. Non a caso, a trentasette anni è ancora qui che gioca da protagonista, con lo stesso innato entusiasmo».
– Ed entrambi avete una particolarità in comune, cioè l’esordio in Serie A affrontando proprio la Juve. Lo ricorderai sicuramente bene il tuo: stadio Delle Alpi, 7 marzo 1993.
«È sempre stato un aneddoto divertente per me e per Ciro: forse era destino fin da allora. A quell’esordio ci pensavo anche quando sono entrato al Delle Alpi il giorno della mia presentazione ufficiale. È uno stadio che mi fa sempre un certo effetto. Fu una partita particolare, quella. Successe di tutto, fini 4-3 per la Juventus e una delle nostre reti la realizzò proprio Ferrara. Io fui messo in campo fin dall’inizio, come terzino sinistro, e nei primi venti minuti subimmo due gol, in cui ebbi anche qualche responsabilità. Per me fu quindi un avvio un po’ traumatico, ma fortunatamente mi sono ripreso bene».
– A parte i tuoi tre grandi amici, anche con gli altri nuovi compagni non è proprio un rapporto che parte da zero.
«Direi che mi sento come a casa. Tra le partite da avversari, le esperienze in Nazionale e le volte in cui ci siamo visti fuori dal campo, qui conosco in pratica quasi tutti. E con gli altri farò in fretta a fare amicizia, visto che sono tutti bravi ragazzi».
– Anche con Moggi è un ritorno. A proposito, vogliamo chiudere una volta per tutte il discorso sul famoso viaggio in taxi prima di partire per gli Europei?
«Sì, anche con il Direttore non è un’esperienza nuova. La cosa che mi ha fatto più piacere è stata la sua presenza e quella di tutta la dirigenza durante la presentazione mia e di Zlatan. Mi ha fatto subito capire l’ambiente e lo stile: fin dal primo giorno capisci come ti devi comportare. Quel viaggio in taxi da Coverciano a Napoli effettivamente è diventato un tormentone eppure non è successo niente. Io ho dovuto ritardare la partenza di due ore per aspettarlo, ho respirato il fumo del suo sigaro per tutto il tempo e non abbiamo mai parlato di Juve. Infatti, del mio approdo alla Juve si è parlato solo a fine agosto, nell’ultima settimana prima della chiusura del mercato».
– Con il tuo omonimo Capello è la fine di un lungo inseguimento?
«Arrivare in un ambiente dove conosci tutti e sei stimato dai dirigenti e dall’allenatore, sicuramente ti dà molta più responsabilità e voglia di iniziare alla grande».
– Per la tua carriera, come lo definiresti il tuo approdo alla Juve?
«Quando hai la fortuna di giocare in squadre importanti come Napoli, Parma, Inter e alla fine hai l’occasione di approdare nella Juventus, forse la società più importante al mondo, direi che si può parlare della classica ciliegina sulla torta».
– La Juve da avversaria e la Juve vista da dentro.
«La Juve vista da fuori dà l’immagine di una società seria, di un ambiente tranquillo, di grandi professionisti e ognuno sa come comportarsi. E vista da dentro non posso che confermare che l’impressione era giusta».
– Che impressione ti sei fatto della squadra allestita per affrontare questa stagione?
«La società si è mossa bene, rinforzando una squadra già comunque competitiva. Noi nuovi speriamo di riuscire subito a dare un contributo importante. L’anno scorso è stato un po’ particolare per la Juve, quindi dobbiamo metterci subito in carreggiata».
– Gli obiettivi di Fabio Cannavaro?
«Fortunatamente i problemi fisici che ho avuto nel corso dell’ultima stagione sono superati. Personalmente quindi mi aspetto di avere molta più costanza di rendimento, una cosa molto importante per un calciatore che gioca ad alti livelli».
– Come giocatore ti conoscono in pratica tutti. Vuoi presentarti invece come persona? Come ti definiresti?
«Mi ritengo una persona tranquilla, che ama stare in famiglia, trascorrere il tempo libero con mia moglie Daniela e con i miei due figli Cristian, di cinque anni, e Martina di due anni e mezzo, a cui molto presto se ne aggiungerà un terzo. Per il resto, cerco di non farmi mancare niente. Sono un ragazzo educato, mi piace rispettare gli altri, avere un rapporto di sincerità e credo molto nell’amicizia».
– Agli abituali navigatori su internet sicuramente non sarà sfuggito il tuo sito internet personale. Appassionato della rete?
«Lo seguo molto da vicino, mi piace aggiornarlo periodicamente, entrare nel forum, anche se ogni volta che lo faccio succede il finimondo! Quello di internet è comunque un mondo che mi attrae tantissimo».
– Altre passioni?
«Mi piacciono i film, da guardare soprattutto in DVD, e in generale l’elettronica».
– Ultima domanda: che idea ti sei fatto di Torino in questo breve periodo da quando sei qui?
«Torino è una città tranquilla, ti permette di girare senza problemi, ti lascia vivere la tua vita e questo è importante! Se dovessi fare un paragone, direi che si avvicina sicuramente di più a Parma rispetto a Napoli e Milano».
Allora benvenuto, Fabio. Benarrivato tra amici, anche se in ritardo...

Approdato in riva al Po grazie a un colpo di genio di Moggi, che scambia Fabio col portiere Carini, diventa protagonista assoluto della difesa bianconera. Nella prima stagione, non perde una partita; incassa trentotto presenze e segna anche due gol. Gli acciacchi e le mediocri prestazioni di Milano sono definitivamente alle spalle.
Poco prima della fine del campionato, Cannavaro è protagonista di un documentario durante il quale è ripreso a iniettarsi dei medicinali, in una trasferta europea del Parma. Grosso scalpore si leva fra l’opinione pubblica. La Juventus, com’è solita fare, si stringe attorno al giocatore, i tifosi bianconeri sostengono a gran voce quello che è diventato il loro idolo. Cannavaro non risponde alle polemiche e la domenica successiva, contro il Bologna, segna la rete di apertura con un perentorio colpo di testa.
Nella stagione 2005-06 la Juventus ha il compito di confermarsi e lo fa alla grande. Ancora uno scudetto con Fabio sempre protagonista. Sul campo la Juventus merita la vittoria, ma lo scandalo Calciopoli colpisce nel profondo il club bianconero che è costretto a rifondare il proprio staff dirigenziale e ripartire dalla Serie B. «Ci hanno tolto sulla carta due scudetti, ma le emozioni e la gioia che abbiamo provato in quei due anni non ce le possono togliere, come le medaglie che ho a casa. Anche perché, chiunque andasse in campo, sapeva che eravamo noi la squadra più forte. Essere alle Juventus è stata un’esperienza fantastica a livello lavorativo: è bello arrivare il primo giorno in uno spogliatoio e sentirsi già a casa. A me è capitato così. Alla prima partita che giocai venne il massaggiatore a chiedermi da quanti anni fossi lì, perché ero già molto integrato. Ho avuto la fortuna di ritrovare Thuram, Buffon, Del Piero. E poi quella di giocare con Nedved, Trézéguet, Camoranesi, Ibrahimović. Non capita tutti i giorni. A Torino si è visto il miglior Cannavaro; il primo anno ho giocato trentotto partite su trentotto, il secondo trentasei e ho segnato quattro gol. In quegli anni eravamo troppo forti, era bello vederci giocare».
Fabio, però, segue da lontano, anche se ne è profondamente colpito, queste vicende. Lui è in Nazionale con Marcello Lippi per il campionato mondiale tedesco. Al termine della vittoriosa manifestazione, segue Fabio Capello a Madrid. «Il Real Madrid – spiega in conferenza stampa – è la squadra dove tutti i calciatori vorrebbero giocare almeno una volta nella vita. A questo punto della mia carriera era probabilmente l’ultima occasione che mi si presentava. Non potevo rifiutare».
Il finale dell’anno 2006 è da incorniciare, in novembre vince il Pallone d’Oro a Parigi, votato dai giornalisti, e in dicembre è incoronato a Zurigo con il Fifa World Player, votato da allenatori e capitani delle nazionali di tutto il mondo. Tutto questo nonostante il non esaltante rendimento con le Merengues. Nella classifica del Pallone d’Oro, precede il suo grande amico Buffon, che avrebbe, probabilmente, meritato il premio. «Non sta a noi decidere chi deve vincere, l’ha deciso una giuria che ha scelto me; però, se ho vinto io, è merito anche suo, perché qualche errore che ho fatto al Mondiale me lo ha coperto lui».

ANDREA DE BENEDETTI, DAL “GUERIN SPORTIVO” DEL 22-28 SETTEMBRE 2009
Il muro di Berlino è ancora lì, dritto e pieno di graffiti, uno per ciascuno dei figli (Christian, Martina e Andrea). Lo hanno fischiato, attaccato, incrinato, ma non l’hanno abbattuto. Soprattutto, non s’è abbattuto lui. Nemmeno quando la stampa spagnola ironizzava sulla sua dorata pensione a Madrid (ma quando mai?). Nemmeno quando, a Pallone d’Oro ancora da alzare, c’era già chi sindacava sulla sua legittimità. Nemmeno quando lo scorso maggio ha rischiato di rovinarsi la reputazione di una vita per colpa di un modulo suicida che lo aveva lasciato alla mercé di Messi e Henry (Real-Barça 2-6). Nemmeno quando quest’estate, i tifosi bianconeri gli avevano promesso un’accoglienza a base di fischi per il tradimento consumato dopo Calciopoli. A tutte queste polemiche il Muro ha risposto con un’alzata di spalle e un sorriso, che è il modo migliore per mantenersi in piedi. Non è un caso che l’altro muro – quello vero – fosse caduto perché a Berlino, per tanti anni, nessuno aveva voglia di ridere.
– Allora, Fabio, questi fischi li hai sentiti o no?
«Guarda, mi ero non parlarne più. È tutta l’estate che non mi domandano altro. Quello che dovevo dire, l’ho detto. Cioè che è una polemica montata sul nulla. Ho cercato di spiegare ai responsabili delle curve come erano andate le cose dal mio punto di vista, loro mi pare che l’abbiano capito. Ho anche giurato che dalla prima di campionato avrei pensato solo al campo. Se qualcuno mi ha fischiato, io avevo le orecchie tappate».
– Senti di avere qualcosa da farti perdonare?
«E perché mai? Quella di tre anni fa fu una scelta fatta d’accordo con la società. Si era chiuso un capitolo ed era il momento giusto per andare all’estero».
– L’ultima pagina del capitolo fu particolarmente dolorosa.
«Per me restano due anni fantastici. Ho segnato tanto, vinto due scudetti, giocato in una squadra irripetibile. Il primo a essere dispiaciuto di andarsene ero io».
– Il presidente Cobolli l’anno scorso si disse contrario al tuo ritorno. Che cosa gli ha fatto cambiare idea?
«L’ha sempre avuta, solo che non poteva svelare i programmi della società (ride). No, scherzi a parte, non è cambiato nulla. I rapporti tra me e lui e tra me e la società sono sempre stati buonissimi. Già nel 2007 c’era stato un abboccamento con Alessio (Secco, ndr), quest’estate abbiamo semplicemente concretizzato».
– Gli amori più duraturi sono sempre preceduti da lunghi corteggiamenti.
(sorride) «In effetti. Diciamo che quest’estate l’operazione era diventata conveniente per tutti. Per la Juve, per il Real e ovviamente per me».
– Hai vinto scudetti, Mondiali e Pallone d’Oro, ma c’è ancora gente che ti mette in discussione, perché?
«È così da sempre. Quando ho iniziato a giocare mi dicevano che non potevo fare il centrale perché ero troppo basso, poi hanno cominciato a dire che non ero in grado di marcare l’uomo perché ero abituato al gioco a zona. La verità bisogna dimostrarla sul campo, e a me pare di esserci riuscito. Di tutto il resto mi frega ben poco».
– In Spagna avevi i tifosi dalla tua e una stampa non troppo tenera, qui succede un po’ il contrario: dov’è l’errore?
«Sono situazioni diverse. In Spagna ho pagato il cattivo rendimento della prima stagione. È stata una delle mie annate più brutte: arrivavo da campione del mondo e ho commesso molti errori. Naturale che la gente fosse un po’ delusa, anche se i tifosi del Real non mi hanno mai fatto mancare il loro appoggio».
– E in Italia?
«L’ho già detto. Colpa di Calciopoli che mi ha obbligato ad andare via in fretta e furia senza poter dare spiegazioni. Fortunatamente in giro c’è ancora molta gente che mi vuole bene».
– In Spagna, più che altro, non vedevano tutta questa urgenza di pagare tutti quei soldi per un difensore. Italiano, per di più.
«Vero. Noi italiani veniamo abituati fin dalla culla a lavorare sulla tattica, a ragionare come reparto e non come singoli. In Spagna, invece, devi essere bravo ad agire prima con la tua testa e poi come reparto».
– Nemmeno Beckenbauer.
«Infatti Poi hai presente cosa vuol dire difendere al Real Madrid? Intorno a te ci sono le praterie e sei spesso costretto all’uno contro uno. Non sono certo stato l’unico a trovare difficoltà lì. Anzi, tra tutti i centrali che ha comprato il Real in questi anni, io sono quello che è durato di più».
– Gli italiani in Spagna sono guardati sempre con un po’ di sospetto.
«È un sentimento ambivalente. Da un lato apprezzano tantissimo la nostra efficacia tattica, dall’altro si sentono più vicini ad altre tradizioni, almeno a livello estetico. Ma loro, con quel tipo di calcio, hanno vinto solo due europei, noi, con il nostro, abbiamo quattro coppe del mondo. Quando io mostravo le stelle sulla maglietta, anche i più scettici se ne stavano zitti».
– Adesso però stiamo zitti noi.
«Vero. Nel calcio sono cresciuti tantissimo, ma questo vale per tutti gli sport di squadra. Se vai in giro per la Spagna ti rendi conto di quanto hanno investito in campi di basket, calcio, pallavolo, pallamano. I giovani spagnoli hanno molta più offerta sportiva che in Italia».
– Qual è l’insegnamento più prezioso che ti sei portato via da Madrid?
«Uff, ce ne sono tantissimi. La cosa che ho apprezzato di più, però, è il modo sereno di affrontare le partite. In Italia si va in ritiro il sabato sera e nello spogliatoio, prima delle partite, non vola una mosca. Lì invece negli spogliatoi c’è sempre la musica accesa e qualcuno che ha voglia di scherzare. È il modo migliore per allentare la tensione. Da noi alla fine non ce la fai più».
– Mai pensato di provare a importare il modello?
«Sarebbe bello, ma lo vedo difficile. Qui dopo due tre sconfitte si va in ritiro, lì no (ma nel nuovo decalogo di Pellegrini i ritiri ci sono eccome, ndr)».
– Non mi dirai che una squadra come il Real Madrid riesce a vivere fuori dalla pressione?
«Certo che no, anzi. A Madrid ci sono trecentomila radio che parlano solo di quello, ma il ritiro non viene visto come un rimedio. Guardiola insegna: se uno si rilassa in famiglia la sera prima, arriva al campo che ha ancora più voglia».
– Andarsene dal Real l’estate in cui comprano Kakà e Cristiano Ronaldo non è un po’ come andarsene da una festa quando stanno per arrivare le belle ragazze?
(ride) «No, non credo. Fiorentino ha investito tanto per avere i migliori giocatori, ha in mente un progetto affascinante, ma costruire una squadra è difficile anche se sei pieno di campioni».
– Non mi dirai che te ne sei andato per questo?
«Niente affatto, Anzi, mi avevano fatto capire che sarei potuto rimanere anche quest’anno. Semplicemente, alla fine, ho preferito la Juve».
– Quella sì che è una squadra, avrai pensato.
«Sono due modi diversi di programmare. Alla Juve si pensa più al gruppo che ai singoli. È una questione di cultura».
– E di soldi.
«Senza dubbio. Viste da qui possono sembrare spese folli, ma la cultura del Real è, da sempre, quella di mettere insieme i giocatori migliori. Non la giudico e non la condanno, per carità. Semplicemente, ognuno ha la sua politica».
– Il fatto che a trentasei anni sei ancora titolare in Nazionale e in una delle squadre più forti d’Italia significa che sei ancora forte come un ventenne o che non nascono più difensori decenti?
«Quando io ho cominciato c’era Baresi che aveva trentasei anni e continuava a giocare. Se uno è forte, è forte. L’età conta fino a un certo punto. Se giochi male a venti o a trentacinque anni ti massacrano uguale».
– Ammetterai che dietro di te tanti eredi non se ne vedono.
«Diciamo che in questo momento è venuta a mancare una generazione di giocatori bravi in questo ruolo. Una volta eravamo la patria dei difensori, adesso siamo quella dei centrocampisti e degli attaccanti. Questione di periodi e di cicli».
– Il vostro ciclo è stato irripetibile.
«Per certi versi sì. Io, Nesta, Materazzi. Quando mai capita che dei difensori diventino famosi come degli attaccanti e guadagnino le stesse cifre? A noi è capitato».
– Hai appena compiuto trentasei anni. Come ti senti, alla tua età?
«Bene, come mi sono sentito bene negli ultimi due anni e mezzo. Solo i primi sei mesi a Madrid li ho patiti. Ma, ripeto, era più stanchezza mentale che fisica. Mi sentivo scarico».
– A sentirti parlare sembra che tu non pensi mai al dopo.
«Infatti non ci penso. Preferisco godermi gli ultimi anni da calciatore».
– Come hai trovato cambiata la Juve da quando te ne sei andato?
«È cambiato il centro sportivo, sono cambiati i dirigenti, tutto il resto, però, è rimasto uguale. La voglia, gli stimoli, la storia, i compagni».
– È cambiato anche l’allenatore.
«Sì, ma questo qui lo conoscevo già abbastanza». (sorride)
 – A vederti con quella maglia sembra che tu non te ne sia mai andato da Torino.
«Vero. Questi tre anni sono letteralmente volati».
– Chi ti ha colpito di più tra i nuovi.
«Diego, certamente. Un brasiliano atipico, solido e concreto come un tedesco. Però mi ha colpito tutta la squadra. C’è un’atmosfera speciale».
– Quanto speciale?
«Molto, ma non mi scucirai nemmeno un pronostico».
– Che effetto ti fa quando ti dicono che l’Inter ha vinto gli ultimi quattro campionati?
«Nessun effetto. Gli ultimi tre se li sono meritati sul campo. Quello prima lo abbiamo vinto e festeggiato noi. Quelle sensazioni non ce le toglie nessuno».
– Que te quiten lo bailao, dicono in Spagna. Nessuno ti può togliere i balli che hai ballato.
«Non conoscevo questa espressione, ma mi sembra davvero perfetta».

La stagione, invece, si rivelerà molto deludente per la Juventus e per lo stesso Cannavaro. La squadra bianconera, pur avvicendando l’allenatore Ciro Ferrara con il più esperto Alberto Zaccheroni, si piazza al settimo posto in campionato ed è eliminata nel girone di qualificazione della Coppa Campioni.
Sempre criticato dai tifosi, che non gli hanno mai perdonato di non aver seguito la squadra in serie B, Fabio colleziona vere e proprio figure indecorose al pari di quelle della squadra. Ogni avversario, anche il meno dotato, lo sovrasta sia fisicamente sia a livello di corsa evidenziando in modo netto l’avvicinarsi della fine della carriera.
Al termine del campionato annuncia il suo trasferimento a Dubai. «Dopo l’anno che ho passato è giusto cambiare per me e la mia famiglia. Tornare a giocare dopo in Italia? No. Ho trentasette anni e non ci penso più. L’esperienza all’estero ti arricchisce, l’ho già fatta. Di sicuro mi mancherà la Nazionale. Penso il segno di averlo lasciato comunque. È sempre qualcosa di speciale. Quando scendo in campo e canti l’inno ti senti un paese alle spalle. E non nego che l’annata alla Juve mi abbia segnato. Quando parti per vincere e poi le cose non vanno in un certo modo dispiace. E credo che abbia segnato anche altri. Ma non parliamo di sindrome-Juve qui in Nazionale. Questo lo escludo».
I suoi numeri: 126 presenze, sette reti e due scudetti vinti.