Gli eroi in bianconero: Erik Olof MELLBERG
Il giorno in cui ha messo il suo nome sul contratto scritto in carta intestata Juventus – scrive Federica Furino su “Hurrà Juventus” del settembre 2008 – Olof Mellberg ha pensato: ecco, il mio momento è arrivato. E dopo ha aggiunto: era ora. Poi però, perché quel momento arrivasse sul serio – dopo le tre stagioni di esordio a casa sua in Svezia, le tre di gavetta internazionale nella Liga con il Racing Santander e le quasi-sette di onorevole militanza in Premiership con l’Aston Villa – ha dovuto attendere altri sei mesi per “svincolarsi” ufficialmente. Da gennaio a luglio, con i piedi in Inghilterra, la testa in Italia e il cuore a fare la spola tra passato e futuro, tra i ricordi e l’ambizione.
Roba difficile da reggere persino per uno come lui, che passa per essere un tipo piuttosto freddo: un attimo di distrazione, una parola sbagliata, una partita no, e finisci per farti odiare da quelli che fino al giorno prima ti veneravano come un dio. E allora Olof il vichingo, che evidentemente è più romantico di quanto non dia a vedere, dopo aver lasciato segni di molti generi sugli avversari, decide di lasciarne uno anche sui tifosi del Villa, regalando una maglia di gioco con su scritto «Thanks 4 your support» (grazie per il vostro sostegno) ai tremila e cento aficionados che seguono la squadra in casa del West Ham United.
Un “pensierino” che gli costa 40mila sterline, pagate di tasca sua alla faccia del beau geste. Ma va bene così perché, dice, i tifosi sono quelli che ti pagano lo stipendio. «Non capita spesso a un giocatore di sapere con così largo anticipo dove sarà la stagione successiva. Tanti mi chiedevano una maglia firmata come ricordo e così ho pensato che avrebbero apprezzato questo regalo. Certo sarebbe stata una buona idea per la mia ultima partita in casa, ma comprarne 42mila mi sembrava un po’ eccessivo... Comunque i tifosi mi sono sempre stati vicini ed io ho cercato di ripagare la loro presenza dando il cento per cento tutte le volte che scendevo in campo. Lì però volevo dire grazie in un modo diverso».
Poi il “momento” è arrivato davvero e le valigie, pronte da gennaio, sono finite sull’aereo di sola andata per Torino. Due mesi dopo Mellberg si muove nel centro di Vinovo con quel filo di rigidità di chi si sente ancora un po’ ospite. Perché il campo è una cosa, quando si gioca ci si capisce, la vita fuori un’altra: ci vuole un attimo per smettere di sentirsi in un residence di lusso, guardarsi attorno e dire sono a casa.
– Nuova squadra, nuova città, nuovo paese. Olof, come procede la juventinizzazione? «Sto cercando di imparare l’italiano, mi impegno, faccio dei progressi. Mi aiuta avere vicino Ekdal, che è svedese come me: dividere la camera con lui in ritiro e in trasferta rende tutto più facile. E anche con Poulsen è più facile capirsi. Ma l’ambiente dello spogliatoio mi piace, si parla un po’ di inglese e un po’ di spagnolo. Insomma, troviamo il modo di comunicare».
– Che effetto ti fa essere qui? «Beh, in Svezia il calcio italiano è molto popolare. Ed io sono cresciuto vedendo le partite della Juventus in televisione. Quindi che cosa posso dire? È un bell’effetto. Non è mica retorica: questa è una delle squadre più importanti del mondo. Dopo sette anni di Aston Villa e campionato inglese volevo provare qualcosa di diverso e questa è stata una grandissima opportunità».
– Come sono stati questi primi due mesi in bianconero? «Belli e faticosi: molto allenamento e molte partite».
– Era quello che ti aspettavi? «Sì, credo di sì. L’anno scorso guardavo i giocatori della Juventus in televisione e pensavo: chissà come saranno? Alla fine ho trovato un’atmosfera speciale».
– Anche in campo? «Naturalmente ci vuole un po’ di tempo. Loro sono un gruppo collaudato e sto cercando di inserirmi nel migliore dei modi, di imparare a giocare con tutti. In un precampionato del genere, tutte queste partite, tutte queste formazioni diverse che il mister ha messo in campo, aiutano».
– E con i compagni di reparto come va? «Alla grande, credo. Anche li abbiamo lavorato per arrivare a un’intesa».
– Qualche preferenza? «No, non direi. Quando giochi con gente del genere tutto viene più facile: con grandi campioni come Giorgio e Nicola ci si trova sempre».
– Passi per essere uno piuttosto “strong”. «Non so se sono strong. Sono uno che non si spaventa, questo sì».
– Vuoi dire che non hai mai pensato: e chi lo ferma quello? «In un certo senso no. Non è mai chi mi sta di fronte il problema. Il punto sono io. Dipende tutto da come mi sento, fisicamente e mentalmente. Se tutto va bene, non ce n’è per nessuno».
– Neanche Ibrahimovic? «Neanche lui».
– Che però è un amico... «Sì, siamo amici, ci conosciamo da sempre. Abbiamo giocato molte volte insieme in Nazionale.
– Che cosa ti ha detto quando hai firmato per la Juventus? «Era felice per me. Molto. Mi ha ripetuto che è una grande opportunità. A prescindere da quanto si è detto e scritto, lui a Torino è stato molto bene. Mi ha sempre detto cose buone della squadra e dell’ambiente. Sono felice di ritrovarmelo di fronte».
– Non sarà l’unico avversario tosto. La Serie A passa per essere uno dei campionati più pesanti d’Europa. «Non so se sia così. L’ho seguita in televisione il più possibile, ma non ho ancora un’idea precisa di che cosa voglia dire giocarci. In Svezia, lo ripeto, è molto molto popolare, l’interesse che suscita è grandissimo. Io in passato ho giocato in Spagna, poi in Inghilterra: cercherò di fare tesoro dell’esperienza che ho accumulato e spendermela quest’anno».
– Per i tifosi dell’Aston Villa sei una specie di mito, nonostante alla fine tu abbia scelto di andartene. Nei blog non c’è una sola parola cattiva nei tuoi confronti. Merito tuo o del modo di tifare politically correct degli inglesi? «Non so. Io ho sempre avuto un buon rapporto con i tifosi. All’Aston Villa ho fatto un paio di buone stagioni e loro mi hanno apprezzato, sia come giocatore sia come capitano della squadra. Sapevano che stavo cercando nuove sfide e nuove esperienze e hanno capito e accettato la mia scelta. Per parte mia ho sempre cercato di ricambiare il loro sostegno dando il massimo e credo che questo abbia aiutato».
– Che cos’è il massimo per Olof Mellberg? «Il massimo dell’impegno. Sono uno che non si risparmia. Poi qualche volta rendi cento, qualche volta cinquanta: ma la voglia di fare bene è sempre totale».
– C’è una grande differenza nel modo di tifare in Italia e in Inghilterra. Pronto a sentirti gridare contro? «A me piace la bella atmosfera negli stadi. Mi piacciono i buoni tifosi, quelli che sostengono la squadra e vanno alla partita per divertirsi. Detto questo, i fischi degli avversari non mi turbano: credo di poterli sopportare senza troppe difficoltà».
– L’ultima partita in casa dell’Aston Villa è stata battezzata dai tifosi “Olof Mellberg day”. Eri una bandiera. «Sono sempre stati fantastici. Poi credo che abbiano apprezzato le maglie che ho regalato in trasferta. All’ultima di campionato sono arrivati allo stadio vestiti da vichinghi, sventolando le bandiere della Svezia. Mi sono sentito davvero amato».
– Era quello che sognavi da bambino? «Se devo essere sincero no. Da piccolo non ero un gran fanatico di calcio. Mi piacevano di più altri sport, tipo il tennis. Dopotutto in Svezia abbiamo una certa tradizione in questo sport».
– Giocavi anche tu? «Sì, certo. Prima di passare al calcio avrei voluto diventare un tennista».
– Tipo? «Edberg. Ho tifato a lungo per lui».
– Federer o Nadal? «Federer tutta la vita. Anche se Nadal è un fenomeno».
– E nel calcio hai avuto un mostro sacro? «No, non tifavo per nessuno. Ho iniziato a giocare perché mi divertivo, non per emulare qualcuno».
– Quindi se sei diventato calciatore a chi devi dire grazie? «A mio padre. È lui che mi è stato dietro quando ero bambino: mi seguiva molto, mi portava agli allenamenti e alle partite. Dopotutto ero il piccolo di casa».
– Anche a tuo figlio John piace il calcio? «Sì, ne va matto. Ma è piccolo, non ha ancora due anni. Fa ancora in tempo a cambiare idea».
– C’è chi dice nel calcio è più facile rendere bene se a casa si parla d’altro. Anche tu sposi questa teoria? «Parlare di calcio a me piace molto. Ma come ho detto non siamo una famiglia di fanatici. Il lavoro fa parte della vita, quindi è inevitabile finire per parlarne, tanto più perché è un lavoro divertente che interessa anche a chi non lo fa. Ma nessuna ossessione. In casa parliamo un po’ di tutto».
– Hai speso 40mila sterline per regalare le maglie ai tifosi: un gesto molto generoso da parte tua. «I soldi sono importanti perché ti danno possibilità di realizzare i tuoi progetti e, in una certa misura, di essere libero. Ma non sono tutto, per le magliette li ho spesi volentieri. La nostra fortuna, anche quella economica, in fondo la dobbiamo ai tifosi. È giusto tenerlo presente, ogni tanto».
L’esordio ufficiale con la maglia bianconera numero 4 è il 26 agosto nella gara di ritorno del turno preliminare di Coppa dei Campioni, giocata a Bratislava contro l’Artmedia. Il 31 agosto debutta in Serie A, avversaria la Fiorentina: purtroppo per lui e per la compagine bianconera, si fa “uccellare” da Gilardino durante i minuti finali della partita e la Juventus esordisce in campionato con un misero punticino.
Olof è un difensore roccioso, non molto veloce, ma con un grandissimo senso della posizione. È molto abile nei colpi di testa e sfrutta questa sua caratteristica per realizzare, il 18 gennaio a Roma contro la Lazio, il suo primo goal in Serie A. Lo stadio Olimpico gli porta fortuna, tanto è vero che va a segno anche nel 4-1 sulla Roma, il 21 marzo 2009.
Sontuosa è anche la sua partita a Madrid: schierato come terzino destro è autentico protagonista della difesa bianconera che protegge la favolosa doppietta di Del Piero.
Nonostante le sue buone prestazioni, il 23 giugno 2009 viene ceduto all’Olympiakos Pireo.