Gli eroi in bianconero: Carlo BIGATTO

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
29.08.2024 10:20 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Carlo BIGATTO
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Niente meglio delle cifre riassume la grandezza di Carlo Bigatto: – si legge su “La storia della “Juventus” di Perucca, Romeo e Colombero – vestì la maglia bianconera dal 1913 ai 1931; giunse nella Juventus dei Dalmazzo e dei Montano, dei Boglietti e degli Omodei, diventò capitano della squadra nel primo dopoguerra e la condusse per mano fino alla soglia degli anni ‘30; fino al mito.
Torinese classe 1895, goliardo nel collegio cittadino di San Giuseppe, mosse i primi passi calcistici nel Piemonte: nei diciotto anni di milizia bianconera collezionò 211 presenze, una quota rara in anni in cui i campionati potevano anche concludersi dopo 5 o 6 partite. Bigatto è un giocatore che segna tre epoche: vede i primi calci sui campetti della periferia e appare nelle foto ricordo di inaugurazione del nuovo stadio di Torino. Comincia a giocare quando i portieri attaccano il cappotto sulla traversa e termina la carriera a fianco dì Rosetta, del ragionier Viri Rosetta che di professione fa il calciatore.
Altri, forse, meno dotati di lui di carattere, non si sarebbero trovati più in una disciplina tanto cambiata da apparire irriconoscibile; lui continuò a improntare di sé i campionati bianconeri fino a quando gli ressero tendini e muscoli. Senza volerlo essere, era diventato un personaggio, Può darsi che i guadagni dei suoi colleghi degli ultimi anni gli dessero ombra; rispose accentuando più ancora i connotati morali della sua figura, giungendo lui solo alla totale identificazione con la squadra che fa di un calciatore l’uomo simbolo.
Nella prima Juventus, Bigatto aveva esordito come centravanti. Dopo la guerra, si trovò in mediana, dove le sue qualità ebbero modo di emergere definitivamente. I giornali sportivi parlano di lui come di una bandiera fin dai suoi primi campionati postbellici. Evidentemente lo spessore del personaggio aveva prodotto una maturazione precoce: a 25 anni scarsi era già un trascinatore; poco dopo si parla di Bigatto come del capitano ad eternum della squadra bianconera.
Tuttavia, il carisma offusca in qualche modo le nostre possibilità di farci un’idea del Bigatto calciatore, delle sue caratteristiche tecniche, del suo stile. Il ritratto dei giornali d’epoca è un singolare miscuglio di diverse e apparentemente incompatibili qualità: «Giocatore finissimo, dribblatore imperterrito e tenace, conosce tutte le malizie del mestiere. Guai all’ingenua ala avversaria che gli capiti fra i piedi. È destinata a fare una pessima figura, a restare con un palmo di naso e senza pallone; a misurare la cotica erbosa per qualche “trapetta” ben dissimulata. Bigatto è infatti giocatore dallo sgambetto amichevole. Altri sa fare miracoli con l’agilità invisibile delle mani; egli è invece una specie di manipolatore... coi piedi».
Allora, era un picchiatore, Bigatto, o un tecnico raffinato? Quell’aria segaligna, lo sguardo profondo e a volte corrucciato, l’assenza di sorriso, l’indecifrabile berretto alato che fa della sua testa un perfetto ovale lasciano spazio a qualunque opinione.

Qualche deduzione si può tentare a partire dalle fotografie che lo ritraggono sempre nel vivo dell’azione, in opera continua di tamponamento e rilancio. Mostrano anche, quelle immagini, che Bigatto batteva la sfera con proprietà stilistiche indiscutibili, eppure mantenendo una greve impronta paesana.
Sicuramente non ebbe mai la levità di un Rosetta. In lui il gesto atletico mantenne sempre quella contrazione che denuncia la sofferenza, non fu del tutto spontaneo. Ma proprio per questo Bigatto interpretava superbamente il calcio nella sua dimensione cosciente, tattica; e infatti riusciva bene in più ruoli. Da mediano, lo soccorreva la carica agonistica che possedette in misura eccezionale; da centrosostegno, ruolo nel quale pure eccelse, un senso della posizione che all’occorrenza poteva fare di lui il più riflessivo dei calciatori.
Un giocatore completo, insomma; almeno, così ci piace immaginarlo, gettando lo sguardo oltre i tratti un po’ rigidi della sua iconografia ufficiale. Ma forse quei tratti si devono alla sua eccellenza e completezza: del ben noto giocatore Bigatto non metteva conto parlare; dell’uomo sì, perché rappresentava l’ultima enclave dilettantistica del calcio italiano.
Mentre Bigatto è nel pieno della carriera, esplodono le prime polemiche attorno al professionismo. Ora i calciatori sono pagati, e bene. Lui, di soldi non ne voleva sapere; fino all’ultimo rifiutò ostinatamente qualunque premio. Ma la condizione di dilettante Bigatto non la mantenne per puro attaccamento al mondo che aveva conosciuto negli anni prebellici: in lui era anche una scelta di personale autonomia, una insofferenza dei vincoli, era ciò che gli consentiva di fumare 140 sigarette al giorno senza che alcuno potesse avere a che ridire.
Conobbe anche la Nazionale, 5 presenze, esordio sul campo torinese di corso Marsiglia che proprio lui aveva inaugurato il 22 marzo 1925, Italia-Francia 7-0.
Fu uno scopritore di talenti giovani, come i due fratelli Marchi; e capì a fondo le caratteristiche di chi vedeva giocare: una volta consigliò a Gianpiero Combi, imberbe ala sinistra del Savona, di mettersi a fare il portiere.
Queste doti gli tornarono utili quando la Juventus lo chiamò dopo l’allontanamento di Carcano, nella stagione 1934-35: il quinto scudetto consecutivo dimostrò che l’uomo che aveva guidato la squadra al titolo del 1926 di calcio se ne intendeva. Anche in questo caso, prestò disinteressatamente la sua opera: perché Carlo Bigatto era un dilettante. L’unico dilettante che aveva saputo crescere, affermarsi e vincere nel professionismo.