Gli eroi in bianconero: Stefano TACCONI

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
13.05.2021 10:27 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: Stefano TACCONI
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

Poteva diventare cuoco e preparare spaghetti all’amatriciana – scrive Angelo Caroli su “Hurrà Juventus” del gennaio 1984 – e polenta con spezzatino; invece è finito fra due pali, a vivere in solitudine l’arte acrobatica del portiere. La storia di Stefano Tacconi è singolare, quasi una fiaba, dove tutto diventa incantesimo ed è appeso al sottile filo dei sogni e dove un bambino fragile si trasforma in principe.
Figlio di operai (Arsenio e Giannina) di un lanificio di Ponte Felcino (piccolo paese umbro dove Stefano è nato), Tacconi viene dalla gavetta; e nasce portiere per caso, quando i fratelli maggiori Giuseppe e Piero, che credono di saperla lunga soltanto perché fanno il mestiere del centrocampista, lo obbligano a stare in mezzo a una porta, un ruolo che ogni bambino rifiuta categoricamente. Ma Stefano è docile e si adatta. Il tempo lo ripagherà con grossi interessi.
Le prime esperienze calcistiche le affronta a 16 anni, nella squadretta del suo paese; poi si trasferisce a Spoleto, lusingato da un osservatore che gli aveva riconosciuto buone doti atletiche: magro come un grissino, ma la voglia di imparare non gli manca. E sogna, proprio come nelle favole. Il giovane Tacconi deve però dedicarsi anche agli studi. Perciò, dopo aver superato l’esame di terza media, s’iscrive presso l’Istituto alberghiero fra polli allo spiedo e anatre all’arancia.
Ma siccome lui pensa che è meglio un portiere oggi che un cuoco domani, mette la vita dentro a un pallone, che continua ad afferrare con mani diventate sempre più forti e sicure. Gioca nello Spoleto con buoni risultati; poi un giorno compaiono Brighenti e Manni (osservatore e generai manager dell’Inter del 1975-76) per vedere all’opera un giovanotto di nome Roselli. Però piace anche Stefano e il doppio affare è concluso.
L’Inter lo affida a Venturi e a Giancarlo Cella: l’angelo di Ponte Felcino sta per spiccare il volo. Quattrini pochi, ma gloria abbastanza (tornei Primavera e Berretti e Coppa Italia). È rispedito successivamente a Spoleto, poi è mandato a Busto Arsizio (Pro Patria) per via del servizio militare, dal povero Barison. Tacconi si rompe, infatti, il braccio destro (l’ulna) in uno scontro con Vendrame. Sette mesi d’inattività, poi la ripresa, lenta ma sicura.
Soltanto a Livorno, in C1 e alle dipendenze di Burgnich, conosce il calcio a livello semiprofessionistico. Fa parte anche della Nazionale di Serie C che sconfigge, a Londra, l’omologa scozzese. Ma a San Benedetto, altro ambiente caloroso e tranquillo, spicca il volo deciso. Fino ad arrivare all’Avellino dove gioca, per 3 anni, a livelli ottimi. La favola subisce bellissime trasformazioni. La realtà è accarezzata e non sembra più una montagna grande e difficile da scalare.
La Juventus lo mette sotto il proprio obiettivo, ne fiuta le grosse capacità e lo porta nella metropoli torinese. Prendere il posto di Zoff è un compito che avrebbe distrutto chiunque, ma non il portiere perugino il quale non manifesta il minimo turbamento, ostentando sempre tanta sicurezza. Si allena con la stessa spregiudicatezza con cui si muoveva nell’Avellino e non dimostra alcun condizionamento nei confronti di un ambiente che rappresenta il sogno di ogni calciatore italiano. «Ad Avellino dovevo fare anche da libero, figuriamoci se mi spavento per il fatto di giocare in una squadra come la Juventus che al portiere è in grado di assicurare adeguata protezione. Non mi spaventa nemmeno il paragone con Dino. Io sono Tacconi e a Zoff guardo come al maestro».
Ma il ragazzo, oltre che bravo, è indubbiamente fortunato. Il suo arrivo sotto la Mole coincide con la messa in pista di una delle più solide versioni della Juve trapattoniana: confermato lo squadrone sfortunato l’anno prima, sono arrivati ritocchi di sostanza, uno dei quali, la mezzala Vignola, dallo stesso Avellino da cui proviene il portiere. La difesa destinata a proteggere Tacconi è quanto di meglio al mondo sia stato assemblato negli ultimi anni, da Gentile a Cabrini, da Brio a Scirea.
Si può temere qualcosa, con tanti pezzi da novanta a dare una mano? In effetti, non trema Tacconi e soprattutto non tremano i campioni bianconeri che di Tacconi cominciano presto a fidarsi. La Juve parte con il botto, in 3 giorni segna 14 reti e non subendone alcuna, è record mondiale o giù di lì. Avanti in campionato, avanti in Coppa delle Coppe, Tacconi che pure ha nell’esperto Bodini un rivale accreditatissimo è il titolare indiscusso e dà alla retroguardia una sicurezza insperata.

Non solo, con un carattere da simpatico guascone è tra quelli che più si danno da fare per incitare i compagni nei momenti difficili.
Così facendo, nell’anno dell’esordio, mette insieme 23 presenze in campionato e una decina in Coppa delle Coppe e, quel che più conta, dà un contributo decisivo alla conquista di entrambi i trofei. Bravo e fortunato, si diceva. Un inizio così alla Juve l’hanno avuto in pochi.
L’anno dopo, con l’arrivo dell’amico ed ex compagno di Avellino Luciano Favero, ci sono le condizioni per ripetersi. Ma stavolta la sorte è meno benigna e cominciano i problemi: dopo un clamoroso 0-4 rimediato a San Siro contro l’Inter e il derby perduto la domenica successiva, complice un suo errore in uscita, Tacconi è sostituito da Bodini e l’imprevedibile portiere perugino non accetta la panchina, con furiose polemiche che non possono sicuramente essere tollerate dall’ambiente juventino.
Fioccano le multe e trascorre parecchio tempo prima che Tacconi si rassegni alla panchina che sarebbe durata per lunghi mesi. «Tacconi sfida la Juventus!», «Tacconi ha aperto il fuoco!», «Clamorosa polemica alla Juventus!». I giornali vanno a nozze, approfittando curiosi di queste polemiche poco abituali per l’ambiente juventino.
«Una volta i giocatori parlavano poco, forse avevano anche paura, ma con la Legge 91 hanno acquisito la possibilità di andare dove vogliono e le società hanno inevitabilmente minor potere su di loro. Quell’esperienza che ho vissuto mi ha fatto capire che avevo commesso alcuni errori. Il tempo tuttavia ha dimostrato che non avevo parlato completamente a vanvera».
Bodini si dimostra un ottimo portiere e Tacconi soffre parecchio: rientra in squadra sul finire della stagione È pronto per la finale di Bruxelles, ma se la sentirà il Trap di rischiare? Tacconi lo rassicura: «Mister sono pronto, è la mia grande occasione». Il Trap a questo punto si fida. E fa bene. Tacconi è grande nella notte di tregenda, la Juve issa in spalla la prima Coppa Campioni anche grazie alle sue strepitose parate.
Il grande slam del portiere perugino si chiude di lì a qualche mese. Tokyo, 8 dicembre 1985, finale di Coppa Intercontinentale. L’apoteosi per la Juve trapattoniana, il trionfo personale per il portiere erede di Zoff. Cosa c’è di più esaltante per un portiere che ergersi a baluardo, essere l’artefice unico di un successo, insomma parare un rigore, anzi 2, anzi 3? La coppa lottata e sofferta è aggiudicata ai penalty e qui Tacconi si esalta. La sua espressione dopo l’ultima decisiva parata è nella storia televisiva e fotografica del calcio. Pugni al cielo, ghigno di chi è arrivato dove nessuno avrebbe mai detto, insomma gioia incontenibile. Che è poi la gioia di milioni di juventini che hanno messo la sveglia nel cuore della notte per non perdersi l’evento in TV.
Tacconi, di qui in avanti, è un mito dei fans, un uomo simbolo. La Juve dei ciclo trapattoniano non è più la stessa, lasciano campionissimi e arrivano giocatori normali, non si può sempre vincere. Tacconi è la continuità tra quella Juve trionfante e questa che la sfanga senza infamia e con poche lodi.
Passa il biennio di Marchesi, la nota lieta per Tacconi è il suo ingresso, in punta di piedi, nel giro della Nazionale. Da riserva di Zenga, si capisce, ma è sempre meglio di nulla. Poi, alla Juve, arriva Zoff ed è di nuovo tempo di vittorie. Tacconi non salta più una partita che è una, è sempre più il simbolo di una Juve che prova a vincere qualcosa e, nella stagione 1989-90, da un contributo decisivo a un’altra doppia conquista, Coppa Italia e Coppa Uefa. Nella finale europea con la Fiorentina, sul neutro della sua Avellino, gioca un’altra partita da incorniciare, degna premessa al posto in Nazionale al Mundial italiano di un mese dopo.
Poi, nel 1992, l’arrivo di Peruzzi è il segnale che la lunga avventura è agli sgoccioli. Lascia un ricordo indelebile e un curriculum da grande, uno dei più grandi nella storia del ruolo in maglia juventina: 402 partite, di cui 56 nelle coppe europee, con 2 scudetti, il tris delle coppe europee (una Uefa, una Campioni ed una Coppe) e quella Intercontinentale del 1985, che è più sua che di chiunque altro.