Gli eroi in bianconero: Pietro ANASTASI
Dissero subito: «Come calciatore è un paradosso». Avevano ragione: la lacuna più evidente finiva per essere la sua arma segreta; risolveva i problemi creati dal palleggio incerto con uno scatto e una velocità impressionante. Lo stop appariva sempre o quasi, approssimativo, ma lui riusciva a raggiungere la palla prima degli avversari. È stato un centravanti importante sia per la Juventus, che per la Nazionale e, a lungo, ha rappresentato un modello per i giovani del più profondo Sud alla ricerca di quell’affermazione sportiva che, ogni tanto, diventa vero riscatto sociale.
Nasce a Catania il 7 aprile 1948, la famiglia non è ricca: «Sette persone in due stanze», ha raccontato un giorno. Come per altri ragazzi, il suo primo problema fu la scuola, poiché non gli piaceva. Un giorno in classe e un altro in piazza con una palla fra i piedi spesso nudi per non rovinare le scarpe.
Poi il calcio diventò la sua ragione di vita. La carriera fu rapida e, naturalmente, il successo arrivò presto. Due anni nella Massiminiana (girone F della Serie D) e trasferimento al Varese nel 1966.
Due stagioni in Lombardia e poi la Juventus che vinse la serrata concorrenza dell’Inter: fu pagato un prezzo record, 660 milioni.
È il 1968, un anno magico per il calcio italiano. In Italia si disputa il Campionato d’Europa e, per la Nazionale è l’occasione per tornare fra le grandi potenze del calcio.
La sera di sabato 8 giugno, allo Stadio Olimpico, l’Italia è in finale contro la Jugoslavia. Anastasi esordisce in azzurro, ma non si distingue in una squadra che non soddisfa.
Il pareggio 1-1 è un premio immeritato per i nostri colori ma due giorni più tardi, nella finale bis, c’è una prova d’orgoglio degli italiani. È il trionfo: goal di Riva e, bellissima, in mezza rovesciata, la replica di Pietruzzo.
Molto intuito, nel gioco di questo calciatore, molto genio e, purtroppo, anche molta sregolatezza: sarà il suo limite: «Le mie qualità migliori erano lo scatto, la velocità e l’altruismo. E seppur scendessi in campo, anche in Nazionale, con la maglia numero nove, spesso mi posizionavo sulla sinistra, per effettuare dei cross a favore del compagno di reparto. Insomma, ero un uomo d’area che sapeva anche manovrare».
Due anni più tardi, è atteso con curiosità al Mundial messicano. È in gran forma, ma uno stupido incidente lo costringe al forfait poche ore prima della partenza. Lo sostituisce Roberto Boninsegna che, più tardi, prenderà il suo posto anche nella Juventus.
Partecipa anche al Mondiale del 1974 ma, a quel punto, la carriera di Pietro è già verso l’epilogo. In Nazionale giocherà 25 gare e in totale realizzerà 8 volte.
Quando, per la prima volta, arriva in Galleria San Federico, sede juventina, è senza cravatta, e il presidente di allora, Vittore Catella, lo avverte: «Quando si presenta in sede sarà bene, d’ora in avanti, che si vesta con regolare camicia e cravatta».
Ma il contratto è buono e la cifra concordata anche. L’allenatore è Heriberto Herrera, il Ginnasiarca, uno che non cerca e non concede simpatia.
Ad Anastasi, che in allenamento non riesce a interpretare uno dei tanti schemi, una volta urla, davanti a compagni, giornalisti e tifosi: «Tonto, stia a guardare, perché lei non capisce niente!».
È un rapporto, questo con la Juventus, che non sarà mai sereno.
Quando torna a segnare con una certa continuità, allo stadio compare uno striscione: “Anastasi, il Pelé bianco”.
Le cifre: 302 partite e 129 goal, il 1971-72 è l’anno del suo primo scudetto, subito bissato l’anno seguente. Il terzo tricolore lo conquista nel 1974-75, sempre in bianconero, naturalmente.
Lascia la Juventus per l’Inter, nel 1976-77, poi l’Ascoli e l’addio ai campi di calcio con un bilancio brillante.
Anni dopo disse: «Andai via, perché ebbi un litigio con Parola, dopo una trasferta in Olanda, ma con la società sono sempre rimasto in ottimi rapporti. Alla Juventus è dove mi sono trovato meglio e rimarrò sempre un tifoso juventino».
VLADIMIRO CAMINITI
Anastasi fu ingaggiato da Catella, previo interessamento dell’avvocato Gianni al patron dei frigoriferi Giovannone Borghi, un uomo doppio, ma soltanto nel fisico, mento doppio, sopraccigli doppi, pancia se vogliamo tripla; però, una persona lastricata di buone intenzioni, Borghi aveva quasi raggiunto l’accordo con l’Inter per l’osannato centrattacco del suo Varese, ma all’ultimo momento fu galeotta una questione di compressori per frigoriferi e Anastasi passò alla Juventus, dopo che aveva già indossato in amichevole la maglia neroazzurra.
I benpensanti si scandalizzarono. In realtà, il trasferimento fu solo rinviato di alcuni anni, i migliori della carriera del picciotto, di pelle quasi scura, due occhi balenanti, una tosta furbizia, due svelte gambe di levriero.
Alla Juventus trova il fustigatore dei costumi Heriberto Herrera, che aveva nell’arcaico grandissimo Gipo Viani uno dei suoi pochi veri estimatori in un paese calcistico schiavo della pigrizia tecnica: «La Juventus sta praticando il gioco più moderno del mondo, è finita l’epoca degli specialisti; io faccio solo il goal, io difendo e basta».
Diceva il Ginnasiarca prima dell’inizio del campionato, deludente per la Juventus, non per Pietruzzu, il cui bottino fu di 14 goal, rivelando tutta la sua astuzia istintiva e di volo un destro sciabolatore che levati.
Furbo, ghiotto di tutto, soprattutto di popolarità, colpisce che non ami parlare nel dialetto di Meli. Si esprime in compìto italiano, insomma, e va a miracol mostrare del suo stile impolverato (i primi calci li ha dati scalzo, sui terreni aridi della periferia di Catania) già in questo primo campionato juventino: 1968-69.
La fama gli dà subito un po’ alla testa. Con i cronisti, anche con me, ha rapporti difficili. Nello spogliatoio qualche compagno, ad esempio Furino, non ci andrà mai d’accordo. Voglio dire che ha spesso atteggiamenti spocchiosi.
Pure, la Juventus ha cambiato il modo di vivere il calcio; è datato Heriberto Herrera il rinnovamento tecnico che prosegue clamoroso proprio alla fine di questo campionato, quando avanza sulla scena monsù Rabitti e la squadra ripiglia confidenza con le vittorie strappa applauso.
L’Avvocato ha già richiamato Boniperti come amministratore delegato; presto lo farà presidente, e sarà il primo presidente anche tecnico nella storia del nostro calcio. Nascerà la Juventus ineguagliata e ineguagliabile del collettivo in campo e fuori campo.
Anastasi ha tutto il tempo, sono sei anni di gioie e di rabbuffi, di goal maiuscoli e di sensazionali strafalcioni, per lasciare un’impronta. Non si era mai visto un centravanti come lui. L’istinto s’incarnava in uno scatto abbagliante come le onde del mare etneo al suo sole infuocato. Arrivando in bianconero, è famoso; in maglia azzurra si è laureato a Roma campione europeo.
Paragonato ai centravanti tradizionali, è un misto di Gabetto e Lorenzi, ha più estro che tecnica, più possesso fisico dell’azione che senso tattico; caccia il goal come uno stallone la femmina.
Quando al povero Picchi subentra Vycpálek mal gliene incoglie, perché Cesto è bonario ma caustico, ama le posizioni chiare, la lealtà. Anastasi ha atteggiamenti da divo in uno spogliatoio, dove legifera il collettivo.
Ma subito per me diventa Pietruzzo, gioca partite stupefacenti e segna molti goal decisivi.
Forse il campionato del primo scudetto bonipertiano (1971-72) è pure il suo più efficace, il suo apporto è trascinante, per supplire, insieme a tutti, all’assenza nevralgica di Bettega ammalatosi.
«Quel campionato rappresentò il primo traguardo della mia carriera e dell’esperienza juventina. Arrivai al Nord che ero davvero un ragazzino e presto diventai uomo, anche in virtù dell’aria che si respirava in società: erano i tempi di Catella, Giordanetti, Allodi e, soprattutto, Boniperti».
Un campionato tormentoso e per Cesto drammatico che si risolve in volata, con un bel 2-0 al Comunale inflitto al Vicenza. E si può ben dire che questa Juventus di Anastasi si riallaccia alla migliore tradizione della società, vince con una sola lunghezza (43 a 42) su Milan e Torino (che un sardo di nome Giagnoni pilota con demagogica sciarpa), ma è come sta scritto nel suo stemma, la vittoria del forte che ha fede.
Anastasi vincerà altri due scudetti, quello numero 15 in cui assopirà un tantino il suo vulcanico talento.
C’è qualcosa che non va nei costumi atletici del catanese? Ha qualche problema privato? Si può rispondere, senza indugio: quel suo gioco tutto istinto, i suoi scatti a ripetizione, lo logorano; senza la forza fisica rapinosa di un Chinaglia, non è meno rapinoso il suo gioco che siede i portieri.
Rivivrà diversamente, com’è diversa Catania da Palermo, il mare etneo dal mare di Mondello, questo scatto in Schillaci.
Alla conquista del suo terzo scudetto, campionato 1974-75, Anastasi arriva in coppia con Damiani, nove goal a testa, uno in meno l’eterno Altafini.
Lapilli e scaglie dorate del suo scatto inimitabile sono oramai cenere; con un colpo di genio Boniperti, nell’estate del 1976, lo scambia con l’anziano Boninsegna. Il Pelé Bianco naufragherà nelle nebbie di Milano.