Gli eroi in bianconero: John HANSEN

Pionieri, capitani coraggiosi, protagonisti, meteore, delusioni; tutti i calciatori che hanno indossato la nostra gloriosa maglia
25.07.2024 10:15 di  Stefano Bedeschi   vedi letture
Gli eroi in bianconero: John HANSEN
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Quando John Hansen giunge a Torino, nel 1948, il presidente della Juventus, l’avvocato Agnelli, manda a chiamare Pozzo per confermare che il giocatore danese sia effettivamente quello che, alle Olimpiadi di Londra, aveva giocato meravigliosamente bene e aveva segnato quattro reti alla squadra azzurra. Pozzo riconosce immediatamente nel lungo giocatore l’atleta che ci aveva dato quei quattro dispiaceri e Hansen entra a far parte della squadra juventina.
Gli inizi sono molto difficili: poche partite a causa di alcuni infortuni. Va fuori forma e alcuni arrivano a dire che il suo fisico non gli consente uno sforzo continuato. Per fortuna non è così, è semplicemente la conseguenza di allenamenti sbagliati, ma questo lo si capirà più avanti.
Il trainer juventino in quel periodo è Chalmers, che ha ottimi numeri come allenatore, ma conosce poco gli uomini che gli sono stati affidati, non sa dosare lo sforzo di ciascuno, fa lavorare troppo chi si stanca presto e viceversa.
Così Hansen, che pure ha classe da vendere, non convince l’allenatore, che gli preferisce Jordan, Cergoli o Sentimenti III, insomma chiunque. Chalmers sostiene che Hansen è lento e discontinuo. Quando finalmente il danese trova posto, il 21 novembre 1948, con la Juventus già lontana dal Torino capolista, si capisce di che pasta sia fatto questo attaccante moderno e versatile, capace di risolvere la partita in cinque minuti. Succede a Busto Arsizio il 12 dicembre, si ripete a Torino contro il Palermo la domenica successiva. Boniperti ha al suo fianco un compagno che parla la sua stessa lingua e quando Muccinelli sull’out ha fatto fuori il terzino, non deve preoccuparsi di altro che metterla in mezzo, sicuro di trovare il danese pronto a colpire. Quarto posto per quella Juventus, quindici goal per John, al pari di Boniperti.
«Ricordo benissimo che quando arrivai in Italia accompagnato dal signor Artino, segretario bianconero, le cose alla Juventus andavano piuttosto maluccio. Nell’ottobre di quel 1948 i miei amici Parola e Rava, Depetrini e Locatelli, Boniperti e Muccinelli, avevano perso il derby con il Torino e le ripercussioni furono tali da provocare altre quattro sconfitte consecutive, a Genova con la Sampdoria, a Torino con l’Inter, a Lucca e nuovamente a Torino con il Modena. Quest’ultima partita l’avevo vista dalla tribuna, ero arrivato il giorno prima e ricordo benissimo l’autore dell’unica rete che decise la gara. La segnò il piccolo Edmondo Fabbri, che giocava all’ala sinistra. La domenica successiva era in programma l’incontro con il Bari. La mia presenza aveva, non so come dire, galvanizzato l’ambiente. Anche Parola e Rava, reduci da infortuni, decisero di scendere in campo. Io avevo sostenuto solo un paio di allenamenti, sotto lo sguardo di mister Chalmers, ma, anche per esaudire l’invito rivoltomi dall’avvocato Agnelli, buttai alle ortiche ogni esitazione e… indossai la mia maglia con il numero dieci. Fu una partita memorabile, un susseguirsi di incessanti attacchi alla rete del Bari, difesa da un portiere che non ho mai più potuto dimenticare, Bepi Moro, un autentico gatto, agile, coraggioso, dai riflessi fulminei, dalla presa ferrea. Lottammo per oltre un’ora prima di batterlo. Fu un gran tiro al volo di Boniperti che il portiere non riuscì a trattenere: arrivò, lesto come il fulmine, quel diavoletto di Muccinelli e la palla gonfiò la rete. In quell’attimo mi sentii immensamente felice, come se avessi segnato io. Capii che la Juventus avrebbe rappresentato qualcosa di molto importante nella mia vita di calciatore».
Il resto è cammino trionfale. 1949-50, dopo quindici anni torna lo scudetto e John Hansen timbra la stagione con ventotto reti in trentasette partite. In leggera flessione l’anno dopo, con lo scudetto che sfugge più per distrazioni juventine che per meriti altrui, e comunque i goal del danese sono venti. Riecco il John Hansen trionfante nella Juventus più bella, quella del 1951-52: trenta reti in trentasei partite, segnate in tutti ma proprio tutti i modi previsti dal regolamento. Rimane alla Juventus fino all’estate del 1954, totalizzando 187 presenze e 124 goal, che lo collocano nell’élite dei marcatori di sempre della storia juventina.
Pochi sanno che questo fuoriclasse autentico rischiò di andare al Torino. Lo stesso Hansen racconta come andò: «Giocavo ancora nel Frem di Copenaghen, quando il presidente mister Bernhard Langvold, direttore di una grande ditta di vini, occupandosi di importazioni, si trovava in Italia. Un dirigente del Torino gli chiese se fosse possibile avere dalla Danimarca una mezzala di valore e la somma per il trasferimento. Mister Langvold fece il mio nome, ero conosciuto in Italia per aver realizzato quattro goal contro la vostra Nazionale olimpionica a Londra. Con grande stupore del dirigente italiano, Langvold rispose che nessun compenso spettava alla squadra, della quale lui era presidente, in quanto in Danimarca i giocatori non avevano nessun vincolo con i club, essendo questi puramente dilettantistici. Così venni interpellato dal mio presidente per telefono e invitato a fissare la cifra di trasferimento al Torino. Ma una seconda telefonata venne a mutare il primitivo progetto: questa volta è il dottor Boella della Nordisk Fiat di Copenaghen, che, per incarico dell’avvocato Agnelli, desidera avere un colloquio per contrattare un mio eventuale passaggio alla Juventus. Optai per la Juventus e il giovedì 18 novembre 1948 firmai un contratto triennale per la società italiana, rappresentata dal signor Secondo Artino, segretario amministrativo e delegato del club. Il signor Artino, esperto in materia di trasferimenti, mi convinse a partire immediatamente per l’Italia, promettendo le vacanze in Danimarca dell’imminente Natale 1948, con relativo rimborso spese, affinché potessi sistemare e definire le mie pratiche private. In Danimarca io facevo il contabile, godevo di molta stima, ero un giovanotto timido e educato, in possesso di tre lingue e di una certa classe calcistica. La cosa tuttavia, che maggiormente mi inorgogliva, era il fatto di non essere mai stato espulso nel corso di una partita di calcio. Ed ecco che, militando nella Juventus, mi toccò proprio un’espulsione. Giocavamo contro il Padova, la prima domenica del gennaio 1949. Non c’erano problemi per il risultato: all’inizio della ripresa vincevamo già per 6-1 ed io avevo firmato proprio la sesta rete. Poco dopo, saltando su un traversone di Caprile, mi scontrai con il portiere Romano; la palla schizzò verso Muccinelli che mise in rete. L’arbitro fischiò e annullò il goal, perché in Italia il solo rispetto ancora tutelato è quello per i portieri. Accorse il mediano avversario Matè e mi colpì con un calcio a un braccio. Accorse il mio compagno Jordan, accorse il capitano del Padova, Quadri. Ci fu una collettiva stretta di mano. Tutto sarebbe finito lì se io, bonaccione come un parroco di campagna, non avessi espresso il mio punto di vista unendo il pollice e l’indice della mano destra, dicendogli “Okay!”. A questo punto Matè corse verso l’arbitro che, d’altra parte, aveva già visto e… giudicato il mio gesto. L’arbitro, un pisano, con vivo successo linguistico, mi chiese ragione ed io ripetei davanti a lui l’atteggiamento della mano. Fu allora che il signor Massai mi indicò la via degli spogliatoi, indignato per un gesto che lui riteneva altamente offensivo. La sera andai a consolarmi in un dancing, insieme all’inglese Jordan. Ebbene, volete sapere una cosa? Non riuscii a prender nemmeno una mandorla salata, perché avrei dovuto, inevitabilmente, unire nuovamente il pollice all’indice. Avrebbero potuto allontanarmi anche dal locale. E questa umiliazione non l’avrei mai sopportata…!».

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«Tra Caprile che non afferrava l’intenzione della mezzala, e Boniperti che aveva preso l’abitudine di restare prevalentemente in posizione arretrata, John Hansen non sapeva più come orientarsi. Egli non è una mezzala di sfondamento, l’azione personale non lo tenta, è uomo di manovra, un realizzatore sì, ma tendenzialmente un tattico; un atleta che reca nel gioco un apporto di idee le quali costituiscono il tema di un coro e non di un assolo. Rompere i collegamenti che Hansen costantemente cerca, equivale a isolare e rendere nulla una viva sorgente di gioco». Per scrivere così di calcio, bisogna essere grandi giornalisti di calcio; che a capire calcio, spiegandolo al popolo, ne siano rimasti molti come l’autore dei due stralci con i quali vi presento John Hansen, proprio non credo. Io credo che a parte pochissimi esemplari, il nostro mestiere si sia imbarbarito in un tecnicismo di maniera, e che sia conformistico in tutto, il modo di porgere e spiegare calcio. In realtà, Ettore Berra negli anni Quaranta, l’articolo è datato ottobre 1949, è stato un luminare della materia, io non posso negare di averlo fatto punto di riferimento nella mia formazione professionale.
Chi è stato allora John Hansen? Questo spilungone danese, con lentiggini come ceci, un gran ciuffo fulvo nei giorni del 1948 quando giocava a Torino, gazzella del gioco aereo, tempista incursore dai goal saettanti, è stato un momento importante per l’evoluzione del gioco in Italia. I padroni amano i fuoriclasse, vivono il calcio per e in funzione dei fuoriclasse, si deve dire che non sempre il fuoriclasse (raramente si vorrebbe dire) serve l’evoluzione del gioco. L’hanno forse servita fuoriclasse come Sivori o Platini? Ho i miei dubbi. Sivori è stato irripetibile come Platini. Al progresso del calcio, nel senso della tattica applicata e delle superiori strategie, sono serviti certi fuoriclasse specialissimi, e uno pensa subito a Di Stéfano più che allo stesso Pelé o a Maradona.
John Hansen ha aiutato il calcio nostro a uscire dalle secche dell’individualismo più o meno di maniera, è stato un fulcro, è stato un artificiere di gioco, con lui, e specialmente per lui è nata la Juventus irresistibile 1949-50, e seguenti, anche 1951-52, con Giorgio Sarósi allenatore, quando Jesse Carver era stato estromesso, dai giochi tentacolari della Signora. La signora del calcio, inimitabile e strepitosa, con un presidente mecenate inimitabile e strepitoso, congegnava in campo meccanismi perfetti. Li aveva studiati a tavolino. Gianni Agnelli aveva visto personalmente la partita all’Olimpiade di Londra in cui la Danimarca ci rifilò cinque legnate in testa a tre, e tre goal furono dello stangone, lo stesso che Gianni ricevette in ufficio, nella principesca sede di Piazza San Carlo, e volle che fosse presente anche Vittorio Pozzo, l’allenatore della Nazionale Olimpica bastonata, perché non ci fossero dubbi che era proprio lo stangone dei tre goal a Bepi Casari: «Sì, è luì», ammise Pozzo, granata di ferro, ma stimatissimo e legatissimo all’Avvocato.
Cominciò da questo momento la carriera juventina di John Hansen. Né si può dire che furono subito rose e fiori. La Juve doveva ancora darsi una regolarità e un indirizzo tattico. L’allenatore Chalmers era forse un competente, ma certamente un bizzoso. Per lui, era meglio Angeleri, un half puro all’ala destra, al posto del piccolo serpentineggiante Muccinelli! É tutto dire. Chalmers allenava Sentimenti IV nei vagoni ferroviari con molliche di pane! Era un desso che qualcuno ha ritenuto fesso, come allenatore di calcio, intendo. L’Avvocato prediligeva in materia gli inglesi e con Carver, seppur limitatamente, ci avrebbe azzeccato. Nel campionato 1948-49, l’ultimo del Grande Torino terreno, John Hansen gioca ventiquattro volte e segna quindici goal. Il suo valore è patentato, riconosciuto e sottoscritto, e John diventa un pilastro per la gloria successiva con ventotto goal in trentasette partite, l’attacco irresistibile e tranciante comprendeva da destra a sinistra Ermes Muccinelli, Rinaldo Martino, Giampiero Boniperti, John Hansen e Aage Præst.  Forse, e senza forse, l’attacco più forte in assoluto (io lo preferisco a quello della Juve “platiniana”) della storia bianconera.
John, la cui precoce scomparsa ha avvilito tutti i supporter juventini, aveva un carattere smagato e pressappoco innocente, pur con fondo di orgoglio che lo portò a schierarsi nettamente contro Jesse Carver dopo la famosa intervista di Emilio Violanti all’allenatore britannico, e alla quale si fa risalire l’inizio del giornalismo sportivo contemporaneo. Nascevano in quell’estate del 1951 i due punti e virgolette, che poi ironicamente visitati da un Gianni E. Reif avrebbero avuto tanta fortuna.
Dice Boniperti, nel ricordo nostalgico del campione: «John Hansen era un bravissimo ragazzo e un grande professionista. Ecco, lui amava allenarsi, e molto, a differenza mia. Lui era giovialone, sempre contento, non era molto attaccato al denaro, non aveva vizi, era un buono». Sì, John Hansen era così. Si era subito ambientato a Torino, trovandola città estremamente simpatica, e in pochi mesi aveva imparato a parlare un buon italiano. Andava a mangiare, come tutti di quella Juventus, in un ristorante toscano al centro della capitale sabauda, da Biagini, in quegli anni abbastanza memorabili anche perché in parte sognanti, smemorati.
Ritornava spesso in Italia, e la trovava molto cambiata: si isolava nell’ufficio di Boniperti, nella sede di Galleria San Federico, e stavano ore a parlare di calcio, com’era una volta e come oggi non è più. E non è nemmeno la gazzella danese, il trampoliere del goal. Il goal che arriva dall’alto e da lontano. Il goal modellato nel coro, di un campione strategico per eccellenza, tra i grandi del calcio di ogni tempo, da considerare davvero tra quelli alati.