Gli eroi in bianconero: Sergio BRIO
Sergio Brio, quando arriva alla Juventus, deve raccogliere l’eredità di Francesco Morini, ma non si spaventa affatto e si ambienta subito, come se avesse sempre fatto parte della famiglia juventina.
Sergio è l’emblema della potenza, un gladiatore per antonomasia, che da molta più importanza all’efficacia, piuttosto che allo stile. Non soltanto in campo, ma anche nella vita: pochi hanno subito una serie così grande di infortuni, ai quali ha sempre risposto con una volontà notevole.
Nasce a Lecce, il 19 agosto 1956. Alto 1 metro e 92 e pesante 84 kg, è un generoso ed un umile, per natura e per estrazione sociale. Ama definirsi un “prodotto del Sud”, per spiegare la sua vocazione al sacrificio, la sua grande dedizione al lavoro.
«A quattordici anni, ero già molto alto», racconta, «ed in famiglia i miei si preoccupavano. Temevano fossi malato. Invece ero sanissimo e proprio i medici mi predissero un futuro nello sport, in qualsiasi tipo di disciplina sportiva».
Scelse il calcio e fu la sua fortuna. «La malattia del calcio l’ho avuta fin da bambino, basta chiedere a mamma ed a papà quanti vetri ho mandato in frantumi con le mie pallonate».
La Juventus lo preleva dal Lecce nell’ottobre 1974 e lo manda a “farsi le ossa” nella Pistoiese (1975/76 in C, 24 partite e 2 goals; 1976/77 ancora in C, 35 partite e 3 goals; poi in B nel 1977/78, 37 partite). Appena rientrato a Torino, Brio conquista la maglia da titolare, con la quale debutta il 18 marzo 1979, Juventus-Napoli 1-0. All’esordio gli tocca marcare “Beppe” Savoldi, che a quei tempi è uno dei più forti attaccanti in circolazione; ma il giovane difensore se la cava egregiamente. Da quel giorno, Brio ha fornito alla squadra bianconera un contributo fondamentale nella conquista di 4 scudetti, di 3 Coppa Italia e di tutte le coppe internazionali (Supercoppa Europea, Coppa Intercontinentale, Coppa dei Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa Uefa), collezionando 379 presenze.
Spesso, durante la partita, Brio diventa l’attaccante aggiunto della squadra bianconera: i suoi goals (24 in totale) sbloccano le situazioni più complicate.
«Il mio debutto nel Lecce, non è stato come stopper ma come centravanti; fu poi Adamo a collocarmi in posizione difensiva. Ho segnato», racconta, «perfino di piede. Così chi sosteneva che so usare solo la testa ma con la palla a terra ci so fare poco, è stato smentito. Certo riconosco di non essere un “piede fino”, però mi sono ricordato che, da ragazzino, nelle giovanili del Lecce facevo il centravanti!»
Fu Adamo, il suo primo maestro, a trasformarlo in roccioso stopper. Una scelta felice.
«A me nessuno ha mai regalato nulla. Ho sempre dovuto conquistarmi tutto soffrendo. Quando sono arrivato a Torino, non mi sono mai seduto sugli allori», continua il nostro stopper, sono cresciuto alla scuola di Adamo, il quale non smetteva mai di ripetere che la via del successo la si percorre solo con le maniche rimboccate».
Nella sua carriera riceve spesso critiche pesantissime come quelle che lo indicava inadatto ad indossare la maglia della Juventus.
«Ho sempre avuto fiducia nelle mie forze, nel mio carattere, che non si piega facilmente».
Sergio tira diritto per la sua strada e nemmeno te infortuni gravissimi riescono a fermarlo, anzi ne rafforzano la tempra di combattente. Il primo serio incidente è datato 16 aprile 1980. A Vado Ligure, in amichevole, il gigante bianconero si procura una distorsione al ginocchio sinistro con interessamento dei legamenti. Deve rimanere un anno intero lontano dai campi di calcio. Dopo questa terribile avventura, la serie nera prosegue con una catena di impressionanti incidenti: l’11 novembre 1983, ad Alba, sempre in amichevole, si procura uno stiramento alla coscia sinistra: fuori un mese e mezzo. Il 19 agosto 1984, ancora in amichevole, a Parma, altro duro colpo: tentando un colpo di tacco, si procura una brutta distorsione al ginocchio destro. Fatica molto a guarire, ma dopo due mesi rientra e gioca contro l’Ilves in Coppa dei Campioni e contro il Milan in campionato. Ma il ginocchio non è guarito ed il 15 ottobre Brio viene operato di menisco. Un altro mese di attesa, ma non è ancora finita: nel marzo 1985, lo stopper si scontra (a Praga, in Coppa dei Campioni) con il suo compagno Scirea. E rimedia, con una curiosa frattura frontale 3 settimane di sosta.
Meriterebbe sicuramente un “Oscar della sfortuna” e del coraggio, visto che torna in campo più forte e più determinato di prima.
«Se mi fossi lasciato andare», osserva compiaciuto, «se non avessi più combattuto, sarei finito in serie C, ad implorare una maglia. Mi ha salvato la grinta. Mi ha salvato anche, lasciatemelo dire, l’aver trovato una società come la Juventus. Boniperti e Trapattoni non mi hanno mai messo premura, mi hanno aiutato a guarire bene ogni volta, mi hanno aspettato. In questo, sono stato davvero fortunato. Ecco perché tutti i miei successi li dedico a chi ha avuto fiducia. Senza un simile appoggio morale, non si sarebbe parlato tanto di me».
Così lo racconta Caminiti:
Dal 1978 al 1986, il “trampoliere” Brio ha disegnato spesso nella Juventus prestazioni da potersi dire portentose, al centro della difesa epica in tante partite all’estero, ignorato per pura miopia da Bearzot che lo riteneva mediocre tecnicamente, alla stregua di Furino.
La realtà, invece, era l’opposto, di un gladiatore anche nel breve, leale nella lotta quanto cipiglioso, insuperabile frontalmente e sulle parabole, un cliente ostico per qualunque centravanti, dal cerbiatto al molosso. Morini detto “Morgan”, lasciandogli il testimone, gli ha via via dato molti utili consigli e Brio ne ha fatto tesoro per sua stessa natura di uomo, congeniale ai silenzi ed al pudore, un tipo di leccese più unico che raro, mai barocco né emotivo, di poche e sentite parole, amico degli amici, indifferente con i nemici. E ne ebbe. A cominciare dai critici detrattori, un paio, più accaniti di altri; il suo solo merito, per costoro, era che giocasse nella Juventus.
Stopper di tipo inglese, pronto ad avanzare e irrompere per il goal anche decisivo, Brio passa alla storia come uno stopper dal cuore antico, emulo del sentimentale Guido Marchi, come atleta poderoso e persona rispettosa delle regole, calciatore tutto campo e casa, allenamento e pargoli.
In conclusione, se la classe è rendimento, ecco un difensore poderoso che a differenza di altri, dall’illustre blasone, a lui preferiti in Nazionale, non ha forse mai sbagliato una partita. Giocando contro tutti, di anticipo e di volo, nei giorni del professionismo miliardario, al servizio dell’ideale».