Gli eroi in bianconero: Luigi BERTOLINI
Raccontava:
«Sono nato a Busalla, nel 1904, per caso. La mamma, prossima all’evento, abitava ad Alessandria, dov’era nata. Mio padre, Aristide, era di Caprino Veronese; un tipo strambo, per come posso rammentarlo. S’imbarcò per l’America che ero ancora bambino. Faceva il pittore e s’aggiustava a suonare la chitarra. Un fratello di mamma aveva un negozio di frutta e verdura. Come ebbi l’età e la forza di lavorare mi volle con sé. Vita dura, mica scherzi. Mi alzavo di mattino presto, verso le quattro, per andare al mercato generale, con il carretto. Ne tornavo tre ore dopo e facevo il garzone di bottega.
Dopo la sfaticata giornaliera, a sera, andava a scuola. Diploma di “arti e mestieri”, licenza commerciale, medaglia d’oro per il disegno meccanico. Nei pochi momenti di svago, via in piazzetta a giocare alla palla. Di stracci, mica col pallone vero. Ci davo dentro un paio d’ore, poi la fame ed il sonno m’inducevano a smetterla. Mi ero fatto, con gli anni, lungo e secco. Abile comunque per il servizio di leva nel 22° Fanteria. Si era nel 1924 ed il football cominciava davvero a fare strada. Si disputò persino un torneo militare ed ebbi, con la squadra reggimentale, il mio primo titolo italiano: campione militare di calcio. Da notare che giocavo centravanti, segnando fior di goal con la testa, già ricoperta dalla benda bianca che poi mi fu quasi d’emblema per il resto della carriera.
Finito il servizio di leva raggiunsi a Savona un amico dei tempi passati. Faceva il manovale in ferrovia lavorando di notte. Dividemmo in due il lavoro ed in due la sua paga settimanale. Faticavamo a turni di due ore, dormendo con lo stesso ritmo. Un giorno l’amico mi avvertì di aver parlato di me ai dirigenti del Savona, che a quel tempo militava in serie B. Gli chiesi se era impazzito. Mi rispose di non preoccuparmi. Sapeva il fatto suo, mi aveva visto tante volte giocare ad Alessandria sulle piazze o nella “Borsalino” che era convinto di non sbagliare. Piuttosto incerto mi recai alla prova. Un’ora dopo firmavo un contratto per giocare nel Savona. Stipendio di calciatore: 25 Lire al mese, oltre ad un lavoro all’Ilva, acciaierie d’Italia. Finii il torneo come capocannoniere».
Proprio i suoi goal lo resero famoso ed i dirigenti dell’Alessandria, che se lo erano lasciato scappare nel 1925, lo riebbero per la cifra di 1.000 Lire, con l’intenzione di farne il centravanti di riserva. Gli avevano anche promesso un lavoro, ma questa promessa non venne mai mantenuta; così, per tirare avanti, il nostro Luigi si adattò a molti umili espedienti di modestissimo guadagno, come vendere giornali od aggiustare biciclette. Una vita di sacrifici. Numerose volte, forse per dare una dimostrazione non necessaria della sua forza d’animo, Bertolini raccontò incredibili avventure legate al tempo della sua giovinezza.
«Allenatore dell’Alessandria era Carcano. Vedendomi all’opera nelle riserve si chiedeva perché mai giocassi bene il primo tempo e nel secondo non facessi altro che cadere a terra. Venne finalmente a domandarmelo e gli risposi che con 25 Lire alla settimana non riuscivo a mangiare altro che caffelatte e brioches. Il giorno dopo venivo messo a pensione all’albergo “Croce Verde” dove iniziai un duello (che mi vide sempre vittorioso) contro le più grosse bistecche che mi fosse dato di vedere. Con il nutrimento giusto ripresi vigore ed in pochi mesi passai alla prima squadra».
Non avendo il posto di titolare in prima squadra, Bertolini doveva provvedere alla propria attrezzatura di gioco; lo faceva abitualmente, acquistando scarponi militari alla “Cittadella” e sostituendo i bulloni ai chiodi, in modo da essere a posto con il regolamento calcistico. Ma quando, imponendosi con le armi della tecnica e del coraggio, conquistò il posto in prima squadra, le scarpe cominciò a riceverle dal magazziniere. L’esordio avvenne presto.
«Era di scena ad Alessandria il fortissimo Torino, quando si ammalò il mediano Papa. Carcano mi cercò (era di sabato) e mi avvertì che il giorno seguente avrei esordito in serie A. “Giocherai mediano” mi disse svelto e se ne andò. Gli corsi appresso: “Come mediano? Ma se sono il centravanti delle riserve. Il mediano non lo so fare. E poi, proprio contro il Torino”. “Non ti preoccupare” fu la risposta “gioca come sai e andrà tutto bene”.
Vincemmo per 3-1 su di un campo più fango che prato. Feci una gara spettacolosa. Vezzani e Baloncieri toccarono pochi palloni ed impararono a conoscermi. Divenni, in un’ora e mezzo, l’idolo di Alessandria. Mi pareva di sognare. Un anno prima dormivo d’estate sotto il ponte del Tanaro, in una specie di capanna con un letto di paglia e di fieno».
In campo, Bertolini, dava l’impressione di spendere all’inizio tutte le energie che aveva in corpo. Spesso, a metà partita, sembrava già in riserva sfiancato e sfiatato; ma non era che una impressione. Il giocatore alessandrino era come un motore con il compressore che gira più del suo regime normale e Bertolini recuperava sempre: all’ultimo minuto era ancora quello del primo tempo, sempre con l’aspetto di un atleta sfinito che, miracolosamente, era arrivato alla fine della partita. Dove giocava lui, la zona risultava effettivamente coperta, lì non c’erano falle o buchi, né vuoti improvvisi. Sembrava che catturasse palloni facendoseli calamitare sulla fascia bianca che gli legava la fronte.
Quando si trasferì alla Juventus, l’Alessandria mise nelle casse sociali la bellezza di 150.000 Lire. A Bertolini non andò neppure una Lira. Ma il barone Mazzonis, con esemplare magnanimità, gli pagò in anticipo lo stipendio di agosto, mese che di norma restava fuori dal contratto, dal momento che la paga correva da settembre a luglio, quando, cioè, si giocava. E Bertolini, nell’euforia del recentissimo ingaggio, si precipitò ad Alassio, a quei tempi rinomatissimo luogo di villeggiatura, spiaggia mondana e tentatrice, dove pullulavano le belle donne.
Il neo bianconero ad Alassio dovette folleggiare non poco, perché era giovane, bello e felice. Ma il vice presidente Mazzonis, inevitabilmente, lo venne a sapere e nel giro di pochi giorni lo richiamò in sede con un telegramma, per rispedirlo di volata a finire le ferie a Forte dei Marmi, dove già c’erano Carlo Carcano e Giovanni Ferrari: al riparo, dunque, da ogni follia. Ed il buon Bertolini sorrideva, nostalgicamente, ogni qual volta rievocava queste cose.