Gli eroi in bianconero: Giancarlo BERCELLINO
Quando aveva quindici anni gli dissero che sarebbe diventato un forte attaccante se avesse continuato ad allenarsi con serietà, senza grilli per la testa. Esordì, in quel ruolo, contro la squadra ragazzi della Juventus. Giocò talmente tanto bene che l’anno dopo la società bianconera lo acquistò per un milione e mezzo Giancarlo Bercellino, ragazzo senza grilli, aveva realizzato il grande sogno.
«Mi ricorderò sempre quel giorno. Battersi contro la Juventus, anche se si trattava dei giovani, era una vera emozione. La notte prima non aveva chiuso occhio, mi rigiravo nel letto in preda agli incubi. Ed in quel dormiveglia correvo come un forsennato su e giù per il campo, dribblavo mediani e terzini segnando stupendi goal. Invece non ho segnato, ma ce l’ho messa tutta per fare bella figura».
Quella domenica è ancora viva nella sua memoria, come fosse ieri. Una bella giornata di sole con tanta gente che affollava lo a stadio del Borgosesia. L’allenatore della squadra locale è il papà di Bercellino, Teresio, un uomo che al di sopra degli affetti credeva, a ragione, nelle capacità del figlio. Alla fine dell’incontro un dirigente avvicinò Giancarlo e gli dice.
«Sei forte, chissà che non ti debba trasferire a Torino molto presto».
Passano, invece, alcuni mesi e quando Bercellino ha ormai dimenticato quel grande sogno, arriva la notizia.
«Giancarlo, vai alla Juventus».
Fu proprio papà Teresio, che aveva trattato il passaggio, a dargli la lieta novella. Lascia i compagni a malincuore, perché in quella squadra aveva provato le prime emozioni, il batticuore della vigilia. Gattinara, la cittadina del vercellese dove Giancarlo Bercellino, detto “Berceroccia” è nato il 9 ottobre del 1941, gli tributa una bella festa con brindisi ed applausi.
«Avevo le lacrime agli occhi, mi sentivo troppo ragazzo per osare tanto. Cosa poteva succedere? Sarei stato in grado di rispondere alle esigenze di una squadra come la Juventus? Mille domande mi sono fatto durante quel viaggio fino a Torino. E molte di quelle domande restavano senza risposta».
La sua vita cambia. Gli allenamenti, i nuovi amici, i compagni di squadra, le speranze; i tecnici lo seguono con interesse, si informano spesso di lui, sono convinti che, prima o poi, passerà in prima squadra. Non è più il forte attaccante, emergono in lui le doti del difensore sicuro, tenace nei duelli, potente nel tiro.
«Faticavo all’inizio, ero quasi deluso di dover rinunciare ai compiti di centravanti, ma fu solo una questione di tempo. Ben presto mi resi conto che, giocare in difesa, ti prova un’emozione è più forte, la responsabilità è maggiore».
Diventa inevitabile l’esordio in serie A, contro il Mantova. Come in quella vigilia di Borgosesia-Juventus, Giancarlo si trova in preda agli incubi, come se quelle ore che precedono l’incontro siano le più lunghe della sua vita. Il ritiro con i compagni celebri, i discorsi sulla tattica, sono come un’eco ossessiva che gli martella la testa, mentre l’alba della domenica tarda ad arrivare.
«In campo di colpo è passato tutto. Alla paura è subentrata la volontà, il coraggio di lottare. Non sentivo neppure più il pubblico. Capivo, però che avevo superato il momento più terribile».
Negli spogliatoi i giornalisti si occupano subito di lui, gli fanno tante domande e vogliono sapere ogni cosa. Bercellino, l’esordiente, occupa buona parte della cronaca sportiva dei giornali del lunedì.
«Sicuro nel dribbling ... formidabile nell’anticipo ... saettante nei colpi di testa», scrissero.
Insieme a Castano costituisce un duo insuperabile.
«Con Castano e Leoncini andiamo molto d’accordo. Anche con gli altri, ma loro sono gli amici con i quali divido spesso le ore libere, per andare al cinema o per fare una gita od una battuta di caccia».
La caccia è il suo hobby. Un fucile a ripetizione; una doppietta, carnieri e cartucce sono fra gli oggetti preziosi nella camera che lo ospita in una pensione vicina allo stadio. È rimasto ragazzo, semplice, senza presunzioni. Legge “Topolino”, i romanzi della serie “Segretissimo” perché lo distraggono, lo aiutano a non pensare specie durante la vigilia degli incontri più accesi.
«Preferisco stare in pensione e non prendermi un alloggio perché così mi sento legato al mio paese. Difatti quando ho una giornata libera vado a Gattinara a trovare i miei genitori e Marisa».
Marisa è una graziosa ragazza, che diventerà la signora Bercellino; si conoscono da ragazzi. Lei è di Gattinara, gli è stata vicina sempre, aiutandolo moralmente nei momenti più difficili. Qualche volta, la domenica, viene a Torino per vederlo giocare, poi si incontrano per passeggiare e parlano del loro domani.
«Mi comprerò un negozio per avere di che vivere quando non potrò più giocare. Penso che sarà un negozio di articoli di caccia e pesca. Non ho grandi ambizioni, risparmio più che posso; so benissimo che questa professione non dura tutta la vita. A trent’anni. siamo finiti, la gente ci dimentica», confessa con tono triste.
Adora il fratello Silvino.
«Gioca a Potenza e va davvero forte, diventerà quello che avrei dovuto diventare io, un centravanti», dice. Silvino ha segnato quattordici reti diventando l’idolo della città. Anche lui è del vivaio bianconero, un altro dei tanti giovani che, nelle file della Juventus, hanno imparato molte cose importanti.
«Spero che torni presto per giocare insieme. La serie B gli servirà per farsi le ossa, ma il suo sogno è di stare a Torino e di giocare con la maglia bianconera», dice Giancarlo.
Non accarezza pallone ed avversari, li maltratta con anticipi potenti; chi sta seduto sugli spalti del “Comunale”, ha l’impressione di sentire scricchiolii sinistri, ogni volta che si avvicina all’attaccante. É leale tanto quanto è robusto; è fisicamente un blocco di marmo (1,83 per 81 chili), l’andatura di gambe arcuate ricorda John Wayne, un giustiziere. Da giovane è minacciato da un’infezione polmonare, che cura con medicine e con il sole che scalda i vigneti di Gattinara. Il suo tiro è così potente che i portieri non osano accennare la parata quando batte un penalty.
Giancarlo Bercellino, ha realizzato il suo sogno ed i suoi momenti più belli sono quelli della domenica calcistica, quando sente il fischio d’inizio e comincia la grande battaglia dei muscoli e della volontà. Ha segnato tantissimi goal, su azione su punizione, su rigore, ma non si è esaltato. È tornato di corsa alla sua posizione di difensore, ligio agli ordini di Mister Heriberto Herrera.
«Lui sa come deve funzionare la squadra. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio». Una confessione dì modestia che ci conferma ancora una volta la semplicità di questo forte giocatore del vivaio juventino.
Nella Juventus gioca dal 1961 al 1969 e mette insieme, tra campionato e Coppe, 203 partite e realizza 14 goal. Tra i ricordi che conserviamo di questo ragazzone dal sorriso folgorante e genuino, scegliamo quello che coinvolge John Charles. Siamo a Atene, nell’autunno del 1961, la Juventus gioca in Coppa Campioni con il Panathinaikos. Castano è indisponibile, la difesa ha bisogno di una cerniera supplementare. Davanti ad Anzolin, di fianco a Bozzao, Bercellino e Caroli, e dietro a Mazzia, Rosa e Leoncini si piazza il gallese che nel Leeds ha già avuto esperienze difensive. Quel giorno i greci ronzano nella nostra area come zanzare moleste. Se non che il muro Charles - Bercellino si alza e non c’è gloria per gli insetti in maglia verde.
La folla straripa ed applaude, uno spettacolo di colore e folklore. Ed è uno spettacolo vedere quelle due torri frantumare le palle alte con zuccate impietose. I terzini sono al sicuro e possono occuparsi con serenità delle ali ed Anzolin può sorridere disteso. Prende un solo goal ed è 1-1. Mora ha firmato il goal del vantaggio bianconero, sufficiente ad accedere al turno in Coppa Campioni. Dopo la maglia bianconera, indossa quelle del Brescia e della Lazio. Poi, affronta il mestiere non facile dell’allenatore occupandosi in prevalenza di categorie interregionali, senza successo.