La Stampa - Juve, da domani comanda Conte
Pollicione alzato e sorriso complice, è l'unica risposta juventina che Antonio Conte si lascia sfuggire nell'ultimo pomeriggio da pilota del Siena, a Bergamo: un bambino, issato sulle spalle di papà, aveva sventolato il berretto della Juve proprio dietro la sua panchina, e il tecnico, prima di sedersi, aveva ricambiato. Per il resto, silenzio radio («Sono già stato tradito, ho capito come funziona»): dovrebbe ritrovare il verbo domani, quando sarà a Torino per firmare il biennale con Madama, e mettersi subito al lavoro per la prima riunione di mercato. Fino a stasera, però, resterà griffato Siena: «Abbiamo la festa».
Levata la Juve dal vocabolario, le sue apparizioni si sono fatte vagamente comiche, tanto che ci ride sopra pure lui, come ieri dopo l'AlbinoLeffe: «Vediamo quel che capita, se ci sarà un annuncio, così vedrò anche quando e con chi andare in vacanza. Però non ho ancora comprato il biglietto aereo». Per Torino basta l'auto e neppure serve l'hotel, come per l'atterraggio dei suoi ultimi predecessori, Zaccheroni e Del Neri, visto che la casa in corso Vinzaglio non l'ha mai mollata.
Così si finisce a parlare di Juve anche se non si parla di Juve. «Dicono che il mio 4-2-4 non è esportabile? Non lo so, penso solo che è questione di equilibri. Quello serve nel calcio». Del resto, come ricordò tempo fa, le statistiche gli danno ragione: «Ho un'idea precisa di calcio, anche se molti dicono che la attuo in modo squilibrato. Ma guardando i numeri, abbiamo la miglior difesa». L'assetto da Brasile di Pelé e Garrincha, roba catalogata nella leggenda più che nella storia, lo mise a punto ai tempi dell'Arezzo: «Quando mi ritrovai a dover recuperare un sacco di punti».
Il dogma impone quattro attaccanti «in linea», cioè le due punte e gli esterni altissimi, cui viene chiesto un gran chilometraggio. Sulle frontiere laterali ci sarà il primo dibattito tra Conte, l'ad Beppe Marotta e il coordinatore dell'area tecnica Fabio Paratici: quasi bocciati, per motivi diversi, gli esterni sinistri da tempo indiziati (Bastos e Vargas), non sono esclusi esperimenti con il materiale a disposizione. Il decentramento di Quagliarella, ruolo che già fece nella Nazionale di Lippi, o l'utilizzo di Marchisio, uno che in fondo ha i tempi dell'inserimento e l'indole del gol.
In quest'ultimo caso, la questione tecnica si mischia agli affari: senza una collocazione precisa, Tardellino rischia di farsi il campionato da riserva di Pirlo e Inler, o chi verrà. Il che è poco entusiasmante per uno con la Juve nel sangue, la fame di vittorie e il contratto appena rinnovato. Brutale: senza qualche prospettiva tecnica si potrebbe arrivare alla cessione, che ora né la società, né Claudio vogliono.
Al di là del modulo, Conte non cambierà di certo il menù del lavoro quotidiano, che l'ha portato fin qui: «In allenamento è uno che ti massacra», raccontano i suoi giocatori. Ne esce un copyright Conte, se è vero che lui non si sente figlioccio di nessun allenatore prima di lui: «In particolare no - spiega -, ho le mie idee, poi quando vedo, o vedevo, qualcosa che mi piace, la studio». In tredici anni bianconeri, ha imparato cos'è la juventinità, sostengono i tifosi. Lui la rivendica, ma giustamente reclama le capacità con cui l'ha riempita. La scelta non è stata solo questione di marchio della casa, insomma: «Io sono juventino - ha ripetuto la settimana scorsa - ma la chiamata non me la sono meritata per questo. Penso di aver dimostrato nella mia gavetta e con i fatti di poter aspirare a una squadra così».
Quando ancora non s'era autocensurato, aveva smentito anche l'incompatibilità con Andrea Pirlo: «È un giocatore che mi piace molto e tra i due mediani ci starebbe alla perfezione. Mi piacciono questo tipo di centrocampisti, perché pretendo che la mia squadra abbia la palla». Il resto dello shopping, da domani, lo seguirà in diretta. Poi s'affiderà al lavoro, alla fede («Non ho portafortuna, non sono superstizioso, ma sono molto credente») e alla fiducia in se stesso, notevole: «Se allenerò mai la Juve? - disse nel 2006 -. Il problema non è se, ma quando. Non ho alcun dubbio che ci arriverò, è solo una questione di tempo e questo dipenderà da quanto studierò». Vinta la battaglia, comincia la guerra.