LA JUVENTUS E LA MENTALITA' VINCENTE PERDUTA

20.04.2011 21:30 di  Thomas Bertacchini   vedi letture
LA JUVENTUS E LA MENTALITA' VINCENTE PERDUTA
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"La differenza tra Milan e Juve? Ibrahimovic". Si erano lasciati così, viola e bianconeri, al termine della partita disputata allo stadio "Olimpico" di Torino nel corso del girone d’andata. Le parole di Sinisa Mihajlovic, tecnico della Fiorentina, furono un vero e proprio attestato di stima nei confronti della formazione allenata da Del Neri. Era il 27 novembre del 2010. Sono trascorsi quasi cinque mesi da allora, ma sembra sia passata un’eternità.
La Vecchia Signora, dopo un avvio di stagione in sordina a causa degli effetti dell’ennesima rivoluzione estiva attuata in estate, aveva ottenuto il decimo risultato utile consecutivo in questo campionato e iniziava a mostrarsi sempre più ambiziosa. Al termine di quella giornata si ritrovò terza, a soli sei punti di distanza dai rossoneri in vetta alla classifica.

Passata in svantaggio a causa di un’autorete di Motta, riuscì a raggiungere i gigliati grazie al goal di Pepe su punizione nella seconda frazione di gioco. L’aspetto positivo di quella serata, esito finale a parte (l’incontro terminò col risultato di 1-1), fu rappresentato dalle dichiarazioni rilasciate nel dopo gara da parte di alcuni tra i protagonisti bianconeri. Si passò dal rammarico dello stesso Pepe per il mancato successo ("Stavolta ci serviva una vittoria con la Fiorentina per avvicinarci al Milan. Quando ho visto che il pallone entrava mi sono detto "sbrighiamoci a esultare e andiamo a vincere". E' ancora presto per parlare di scudetto, ma dobbiamo pensare in grande") al dispiacere del tecnico di Aquileia per aver sciupato una ghiotta occasione per avvicinarsi alla formazione di Allegri, fermata anch’essa a Genova dalla Sampdoria: "Per come abbiamo giocato sono due punti persi. La classifica in questo momento non ci interessa, ci deve interessare la prestazione. La classifica la guardiamo a maggio". Queste erano parole di chi non si accontentava di un pareggio, di un misero punticino.
Mihajlovic, conscio dei pericoli che Krasic avrebbe potuto creare alla sua squadra, chiese ai suoi uomini di sbarrargli la strada per tutti i novanta minuti di gioco, limitandogli notevolmente il raggio d’azione. Pasqual lo ammise ad incontro concluso: "Sapevamo che la Juve spinge a destra, abbiamo raddoppiato le marcature e limitato i danni".

Fiorentina e Juventus si sono ritrovate domenica scorsa dopo essersi rese protagoniste - nel frattempo - di un’altra annata fallimentare: i viola, ad oggi, hanno accumulato tre punti in meno rispetto a quanto fatto nel campionato precedente; i bianconeri, dal canto loro, uno soltanto in più. Le parole di Pepe, a gara terminata, questa volta avevano un sapore completamente diverso dal passato e rendevano omaggio ad una Vecchia Signora dall’atteggiamento eccessivamente prudente in una giornata nella quale il successo andava cercato a tutti i costi: "Un pò di rammarico c’è, ma con zero punti sarebbe stato peggio". Questa è la famosa teoria del bicchiere "mezzo pieno": quella con la quale si cammina, ma non si correrà mai.
Sotto la Mole passano i giocatori, i dirigenti, le persone, il club - invece - rimane. Così come la sua storia, le tradizioni e quella mentalità vincente alla base di tutti i propri trionfi. Essere riusciti a disperderla nel corso delle ultime stagioni rappresenta uno dei delitti più grandi da imputare alla proprietà del club. A Torino sono transitati negli anni campioni che non hanno avuto difficoltà nel riconoscere quanto appreso durante la loro militanza in bianconero: da Zinedine Zidane ("La mentalità vincente l’ho imparata alla Juve") a Pavel Nedved ("La Juventus mi ha dato tutto. Qui ho acquistato la mia mentalità vincente, quella che ti fa dire che ogni partita è una battaglia"), la lista è lunghissima.

In passato è capitato spesso che la formazione bianconera ad inizio campionato non presentasse in assoluto il miglior parco giocatori tra le squadre presenti ai nastri di partenza: in quei casi più volte sono subentrati aspetti umani e psicologici che le hanno consentito di colmare - o limitare - le lacune esistenti rispetto alle avversarie.

Non si potrebbe spiegare altrimenti come la Juventus allenata da Dino Zoff nella stagione 1989-90 riuscì nell’impresa di conquistare coppa UEFA, coppa Italia e di arrivare terza in classifica (a pari punti con l’Inter dei tedeschi di Trapattoni) dietro al Milan olandese di Sacchi e al Napoli di Maradona vincitore dello scudetto. Tricella, Nicolò Napoli, Galia, Angelo Alessio, Zavarov, Alejnikov, Marocchi, Dario Bonetti e Rui Barros: nessuno di loro era un fuoriclasse. Al tecnico bastarono pochi calciatori di valore in grado di giocare per mesi su altissimi livelli (come Schillaci, ad esempio) per costruire una squadra di successo. L’anno precedente, con una formazione tecnicamente più debole, si piazzò comunque quarta. Con avversarie, per inciso, di un livello tecnico nettamente superiore a molte di quelle con le quali deve confrontarsi la Juventus attuale.
Anche quando il vestito non era dei più belli, e la qualità scarseggiava, la Vecchia Signora non si faceva molti problemi: si sedeva comunque al tavolo dei vincitori e prendeva tutto quanto le era possibile racimolare in quel momento, non vergognandosi di raccogliere anche le briciole.

In un’intervista rilasciata a "La Repubblica" nel mese di ottobre del 1985, nel corso dell’ultima stagione trascorsa a Torino prima del suo approdo all’Inter, Giovanni Trapattoni raccontò alcuni aneddoti della sua esperienza nel mondo del pallone, sia come calciatore che da allenatore. Si scoprì così che aveva l’abitudine di portare avanti una tradizione che gli insegnò Nereo Rocco, ai tempi della sua permanenza al Milan: uscito Boniperti dagli spogliatoi, dopo aver provveduto a distribuire le magliette era solito mettere la mano sulla parete urlando "Ragazzi, siamo qui, ma dobbiamo arrivare quassù!", colpendo poi - con una manata - un punto superiore rispetto al precedente di una trentina di centimetri.

Alla Juventus attuale, ancor più che in passato, serve una robusta iniezione di uomini vincenti come lo furono loro, per ricreare nel tempo quella mentalità che le è sempre stata propria e che adesso è andata persa.
Ora non si cerchino più scuse: durerebbero soltanto qualche mese.
Il campo, d’altronde, non mente mai.