PAVEL NEDVED E L'ORGOGLIO BIANCONERO
"Capello mercenario, Del Piero leggendario". Queste erano le parole riportate in uno striscione che campeggiava sugli spalti dello stadio "San Nicola" di Bari il 19 agosto 2006.
La Juventus, al momento destinata alla serie B con una penalizzazione di 17 punti (poi ridotta a 9), ironia della sorte doveva ripartire proprio dalla stessa località dove aveva concluso la sua meravigliosa storia, dal luogo in cui soltanto pochi mesi prima (il 14 maggio) aveva sconfitto la Reggina (in campo neutro) e conquistato il suo ultimo scudetto, il numero ventinove.
L’avversario era il Martina Franca, società che avrebbe dovuto affrontare il campionato di serie C1 senza soldi e - all’epoca - senza allenatore. In panchina si sedette tal Mimmo Trentadue, il loro preparatore atletico.
Davanti a 6.760 spettatori le due formazioni si incrociarono per disputare i sessantaquattresimi di finale della coppa Italia: vinsero i bianconeri, con le reti di Marchionni, Bojinov e Nedved.
Il biondo ceco, nel corso della gara, già ammonito rischiò seriamente l’espulsione a seguito di un duro contrasto con un avversario dovuto ad un suo eccesso di foga agonistica. Rizzoli, l’arbitro, fece finta di non vedere. Pochi minuti dopo Nedved realizzò la terza e ultima rete dell’incontro. Il popolo bianconero ebbe l’ennesima riprova che anche in quel difficilissimo periodo della storia del club l’impegno di un campione del suo calibro non sarebbe venuto a mancare. Una minima consolazione, nel contesto generale. Ma importantissima.
Il fondo Nedved era sempre lui: che si trattasse di una gara di coppa Italia lontana anni luce dalla finale, di un incontro disputato in allenamento o di un match valevole per la Champions League il suo approccio alle sfide era sempre lo stesso, non cambiava nulla.
Sempre il 14 maggio, ma del 2003, la Juventus eliminò al "Delle Alpi" di Torino il Real Madrid dalla massima competizione europea vincendo la gara di ritorno delle semifinali di quella manifestazione con il risultato di 3-1 (all’andata aveva perso per 2-1). Meier, il direttore di gara, in quell’occasione non fece come Rizzoli e sanzionò un intervento di gioco (istintivo) di Nedved su McManaman con un cartellino giallo, facendo scattare l’inevitabile squalifica data la diffida che pendeva sul giocatore. Anche in quella partita Nedved realizzò una rete: la terza, quella decisiva. Niente finalissima a Manchester, sul prato verde dello stadio rimasero soltanto le sue lacrime di disperazione.
Ad abbracciarlo in mezzo al campo a fine incontro andò Marco Di Vaio, attaccante bianconero di scorta alle spalle dei titolarissimi Del Piero e Trezeguet. Lo stesso Di Vaio che ieri sera, grazie alla doppietta realizzata contro Madama con la maglia del Bologna, ha contribuito ad infliggere l’ultima (in ordine cronologico) umiliazione ad una formazione che - al pari di quella dello scorso campionato - a questo punto si può serenamente affermare che con la Vecchia Signora e la sua meravigliosa storia non ha nulla a che fare.
Giuseppe Marotta, il 20 maggio 2010, dichiarò: "Alla Juventus serve un processo evolutivo, non una rivoluzione".
Luigi Del Neri, dovendo affrontare in questi giorni una difficilissima crisi di gioco e risultati, parlò di "rivoluzione mentale", riferendosi ad un approccio sbagliato dei suoi uomini nella precedente gara persa contro il Lecce ed alla necessità di entrare in campo sempre con la necessaria grinta da contrapporre agli avversari di turno.
Andrea Agnelli, nella prima lettera indirizzata ai tifosi bianconeri (18 giugno 2010), a proposito del tecnico di Aquileia scrisse: "A lui spetterà il delicato compito di riportare cultura e disciplina sportiva nello spogliatoio".
Sempre nel mese di maggio, il 31 dell’anno 2009, Pavel Nedved diede l’addio al calcio giocato nell’incontro di campionato disputato allo stadio "Olimpico" di Torino contro la Lazio, l’altra squadra nella quale il ceco aveva militato nella nostra serie A nel corso della sua carriera da professionista. Uno dei tanti striscioni dei tifosi, in quel pomeriggio di commozione generale, recitava: "I giocatori passano, l’uomo resta".
L’uomo Pavel è recentemente entrato nel CDA della società torinese su richiesta dell’amico Andrea Agnelli. Nell’attesa di trovare una sua precisa collocazione in seno al club, all’indomani della sconfitta di Lecce si è pensato di avvicinarlo sempre di più al campo di allenamento per metterlo a contatto con i giocatori e trasmettere loro il suo carisma, la juventinità e la voglia di vincere di un combattente con il pallone che avrebbe ancora molto da dare alla causa bianconera.
Si può distruggere un qualcosa già rotto? Sì. La Juventus degli ultimi cinque anni ne è la (continua) riprova.
In attesa dell’ennesima rivoluzione e delle (inevitabili, attese) nuove promesse, la cortesia che chi scrive chiede al campione ceco è quella di lasciar perdere la scrivania e di rimettersi le scarpe da gioco.
Non reggerà per tutti i novanta minuti? Stia tranquillo: non sarebbe l’unico, visto quello che combinano i calciatori attuali. Ormai la Vecchia Signora è virtualmente salva. Perdere per perdere, tanto vale affrontare le prossime sfide schierando esclusivamente chi ha la Juventus nel cuore, è un vincente nato, non fa differenza tra un allenamento e una semifinale di Champions League ed esce dal campo senza più energia nelle gambe.
E gli esclusi? Stiano pure a giocare con i social network.