MARCELLO LIPPI DALLA JUVE ALL’ITALJUVE

Finita malissimo la sua seconda esperienza alla guida della nazionale, Marcello Lippi si è assunto tutte le colpe del fallimento sudafricano. Colpe che, ovviamente, non sono solo sue...
26.06.2010 09:42 di  Thomas Bertacchini   vedi letture
MARCELLO LIPPI DALLA JUVE ALL’ITALJUVE
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© foto di Daniele Buffa/Image Sport

"No, non siamo questi. Non possiamo essere questi". Lippi non ci credeva, dopo aver guidato la nazionale nell’amichevole contro il Messico, ultimo test prima del via di questi mondiali.
Invece era proprio così: l’Italia era brutta, e tale è rimasta per tutta la durata della sua (breve) partecipazione alla manifestazione sudafricana.

In campo, quella sera (3 giugno), c’erano sia Buffon che Pirlo. E il problema della mancanza di gioco si sentiva forte, così come l’assenza di identità di una squadra che ruotava intorno agli schemi per trovare certezze. Troppo tardi: con l’esordio contro il Paraguay alle porte, queste convinzioni avrebbero dovuto già essere in cantiere. Marchisio provato trequartista era la fotografia di un gruppo senza una guida sicura delle proprie idee. Da Lippi ci si aspettava quel qualcosa in più che compensasse il "gap" di tasso tecnico che separava l’Italia - almeno nei pronostici iniziali - da Argentina, Brasile, Inghilterra e Spagna.

Capace di stravolgere la squadra a partita in corso, in questa competizione lo ha fatto "prima" di ogni gara. Alla fine ne è nata una confusione della quale gli stessi giocatori ne sono stati vittime. Tramutandole, in alcuni casi, in alibi dietro i quali nascondere le loro infelici prestazioni. Già prima dell’incontro con il Paraguay si era visto che Pirlo non era sufficiente a illuminare il gioco degli azzurri: bloccato lui, la nazionale diventava lenta e prevedibile. Iniziare il mondiale con la sua assenza è stata la mannaia sulle speranze di un cammino che difficilmente avrebbe portato alla vittoria, ma quantomeno avrebbe dovuto evitare una figuraccia simile.

Dal "massimo" (2006, in Germania) al "minimo" (oggi): il tutto in quattro anni. Sono passati due allenatori (Donadoni e il Lippi-bis), ma non sono sbocciati nuovi talenti al livello di quelli che avevano portato la nazionale in cima al mondo. Si rimpiangono gli assenti (Cassano, Balotelli, Miccoli, D’Agostino,…) ma i problemi erano (e rimangono) ovunque. Cambiando l’ordine dei calciatori, il risultato non cambia: perché la qualità è quella. Basta leggere la lista dei giocatori che dovrebbe far parte del nuovo gruppo di Prandelli per capire che la ricostruzione sarà lunga e non priva di ostacoli. Se si vogliono creare illusioni, allora si prepari il plotone d’esecuzione per le prossime critiche all’ex tecnico dei viola.



Certo, spremendo il gruppo sin dove possibile, su qualche risorsa si sarebbe potuto/dovuto puntare maggiormente: quel Quagliarella in panchina sino all’inizio del secondo tempo della terza (e ultima) partita (decisiva), grida ancora vendetta. Il suo goal, quello del pallonetto e della crudele illusione di un pareggio da raggiungere all’ultimo istante di gara, oltre ad essere stato un bellissimo gesto tecnico dava l’idea della serenità e delle convinzioni interiori di un ragazzo lasciato - sino ad allora - ai margini del torneo. Non aver "visto" in allenamento questo, rappresenta un errore non da poco l’ormai ex Commissario Tecnico. Ma difficilmente l’attaccante partenopeo ci avrebbe fatto vincere questa competizione, o risolto le mancanze di gioco, idee, tecnica e condizione fisica degli azzurri.

Le vittorie di Lippi sono nate sotto il segno del furore agonistico delle sue squadre: la nazionale e "le" Juventus che ha guidato lo testimoniano. Nei primi due anni a Torino chiese a Vialli, Ravanelli e Del Piero - in fase difensiva - di fare anche i terzini. Trascorsi 24 mesi di vittorie e chilometri percorsi sui campi di gioco, capì (con la vecchia dirigenza) che ai primi due non c’era più molto da chiedere (l’età, oltretutto, avanzava): vennero così sacrificati sull’altare di un cambiamento che portò Zidane (trequartista) e Boksic (attaccante) in bianconero, con il successivo avanzamento dello stesso Del Piero al ruolo di seconda punta.

Si continuò a vincere, con la medesima "tensione" che portava la squadra a cercare di imporre il proprio gioco ovunque e contro chiunque. Il resto, è storia. In nazionale non ha avuto la possibilità di sacrificare qualche uomo in funzione delle sue idee: non trovando (e non credendo a) valide alternative, si è fidato di un gruppo ormai logoro, fisicamente ancor prima che mentalmente. In buona parte, composto da giocatori bianconeri (vecchi e nuovi). Anche questo, da poco, "è storia". Rimane da chiedersi se sia stato peggio nel 1966 (contro la Corea del Nord di Pak Doo Ik) o nel 2010. Ma anche in questo caso, cambiando l’ordine delle umiliazioni, il risultato non cambia: è stato un fallimento, e tale rimarrà nel tempo.

Dai trionfi alle sconfitte, dalle imprese epiche alle umiliazioni: più vinci più aumentano le responsabilità, le pressioni che ti circondano. E i tonfi, quando arrivano, si sentono forti e chiari. L’essersi preso immediatamente le responsabilità di tutto quanto è successo in Sudafrica è servito - se ancora fosse necessario - a dare la dimensione di un uomo che non si è mai nascosto dietro un dito, mettendoci sempre la faccia. Anche oltre il dovuto.
Il primo Lippi in bianconero lasciò nel corso di una stagione dove già si sapeva che il suo ciclo sarebbe finito; prima di questi mondiali, era nota a tutti la scelta di Prandelli come nuovo CT della nazionale (in bocca al lupo). Per quel poco che conta, non è un caso.

Rimane il fatto che quando i fallimenti - non limitati a quanto accade nel campo di gioco ma ad un "movimento calcistico" intero - si ripetono, l’allenatore non può essere visto come il principale responsabile. Abete è ancora lì, e lì continuerà a rimanere. Nella speranza che qualcuno "sotto" di lui ripeta il miracolo di Berlino, per far dimenticare a tutti - per qualche momento - che il nostro calcio è da cambiare radicalmente. A cominciare proprio da lui.